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Il cuore nel pozzo: un caso di revisionismo mediatico
martedì 28 aprile 2009
sabato 25 aprile 2009
Dal colonialismo liberale alle leggi razziali, ai decreti razzisti di oggi
di Nicoletta Poidimani
Con questo intervento presento alcuni estratti di una mia ricerca sulla genealogia delle politiche razziali e sessuali nell’impero coloniale fascista che sarà pubblicato all’inizio di maggio dalla cooperativa editrice Sensibili alle Foglie col titolo Difendere la ‘razza’. La tesi di fondo del mio lavoro è che se – come sostiene Luciano Parinetto nel suo La traversata delle streghe nei nomi e nei luoghi (Colibrì, 1997) – il Nuovo Mondo è stato il terreno sperimentale dei dispositivi della caccia alle streghe europea, il Corno d’Africa è stato il laboratorio delle politiche razziali e sessuali attuate nell’Italia fascista. Analogamente, le attuali politiche securitarie rappresentano la sperimentazione, sulla pelle dei/delle migranti, di politiche di controllo e repressione. Una sorta di “colonialismo interno” che si legittima proprio con la riattivazione di vecchi e sperimentati dispositivi razzisti e de-umanizzanti formatisi nei cinquant’anni di esperienza coloniale in Africa e con cui non sono mai stati fatti i conti.
Uno dei più importanti storici del colonialismo italiano, Angelo Del Boca, nel saggio I crimini del colonialismo fascista ha documentato la censura in Italia su pratiche di incarcerazione nelle colonie, atti di squadrismo, apartheid, guerra chimica, eccidi e deportazioni di massa, campi di sterminio. Altrove Del Boca avanza anche un’interessante ipotesi su silenzi, censure e rimozioni da cui ancora oggi è affetta la nostra memoria storica. Non si tratterebbe semplicemente degli effetti della propaganda fascista, ma anche di precise responsabilità politiche successive:
La mancata punizione per crimini così gravi ha ingenerato nella maggioranza degli italiani una visione assolutamente sfocata o distorta dei fatti accaduti in Africa. Ma forse è più esatto parlare di rimozione quasi totale, nella memoria e nella cultura del nostro paese, del fenomeno del colonialismo e degli arbitri, soprusi, crimini, genocidi ad esso connessi. A più di cento anni dallo sbarco a Massaua del colonnello Tancredi Saletta e a mezzo secolo dall’aggressione fascista all’Etiopia, l’Italia repubblicana non ha ancora saputo sbarazzarsi dei miti e delle leggende che si sono formati nel secolo scorso, mentre una minoranza non insignificante di nostalgici li coltiva amorevolmente e li difende con iattanza. Questa rimozione dei crimini è dovuta soprattutto al fatto che in Italia, a differenza che in altri paesi, non è mai stato promosso un serio, organico ed esauriente dibattito sul fenomeno del colonialismo. Si è anzi tentato, da parte di alcune istituzioni dello Stato, di intorbidire le acque con il preciso disegno di impedire che la verità affiorasse, mentre una storiografia di segno moderato o revisionista favorisce palesemente la rimozione delle colpe coloniali. [Del Boca Angelo, “Introduzione”, in: Del Boca Angelo (a cura di), Le guerre coloniali del fascismo, Laterza 1991]
Premetto che uso il termine ‘razza’ tra virgolette perché questa categoria è reale solo in quanto effetto di rapporti di potere e non ha nulla di biologico. Analizzerò ora la genealogia di questo dispositivo identitario in relazione al processo di costruzione nazionale in Italia.
Alberto Banti, nel suo La nazione del Risorgimento, esplora i dispositivi attraverso cui si è costituita l’identità nazionale, a partire da testi che costituirono una sorta di ‘canone’ di riferimento per la costruzione dell’immaginario patriottico risorgimentale. Fra gli elementi che emergono dalla sua ricerca, alcuni li possiamo ritrovare, aggiornati, nella propaganda dell’impero fascista. L’ onore, in particolare, categoria-valore che dalla società cetuale venne ripresa e fatta propria dal linguaggio patriottico, in epoca fascista imperiale sarebbe riapparsa, aggiornata, nella formula del prestigio di razza che tutti i cittadini erano tenuti a difendere.
La difesa dell’onore implicava, secondo Banti, una ridefinizione precisa dei ruoli di genere:
Se nel Risorgimento la costruzione dell’identità nazionale aveva implicato la ‘nazionalizzazione dell’onore’, che spostava la questione dal piano delle relazioni private a quelle sociali e collettive, durante il regime imperiale fascista avvenne una sorta di imperializzazione dell’onore: perseguibile era non solo l’italiano che, in qualche modo, ‘tradiva’ la posizione razziale egemonica in cui l’impero di Mussolini l’aveva posto, ma anche il colonizzato che offendendo un singolo italiano faceva un affronto all’intera ‘razza’ dominante. La propaganda razzista del regime di Mussolini fece uso di una precisa strategia: produrre nuovi elementi ideologici richiamandosi a qualcosa di già familiare alla cultura italiana. Riattivando, quindi, dei dispositivi e innestandovi concezioni specifiche del regime fascista spesso suffragate da nuove conoscenze ‘scientifiche’ abilmente adattate allo scopo.
La concezione degli italiani come appartenenti ad una stessa ‘razza’ aveva già fatto la sua comparsa proprio in alcuni testi del ‘canone’ risorgimentale. Dalla rappresentazione dell’Italia come madre che chiama i propri figli – i famosi ‘Fratelli d’Italia’ evocati tutt’oggi nell’inno nazionale – a difendere il suo onore in pericolo, e dalla traduzione di questa relazione parentale nell’“idea del carattere naturale della comunità nazionale”, si arrivò alla denotazione della nazione come “comunità fondata sull’unione politica, geografica ed etnografica”, cioè anche razziale. E se poteva esserci, per gli autori, un oscillare tra concezione razziale e concezione culturalista, come nel caso di Cesare Correnti, altre volte la razza era chiaramente nominata come “importante elemento costitutivo della nazione”, e in questi termini veniva legata strettamente alla cittadinanza intrecciando, così, lo ius sanguinis allo ius soli,significativa traccia di un discorso sull’identità razziale italiana che grande importanza avrebbe avuto nella successiva elaborazione fascista – come vedremo a proposito del ‘meticciato’.
Indagare la genealogia della categoria di ‘razza’ nella cultura italiana, si è visto, permette di portare alla luce la produzione di pensiero che stava alla radice dell’identità nazionale. Le questioni razziali che emersero tra Nord e Sud Italia lungo il periodo dell’unificazione nazionale, all’avvento del fascismo si presentavano ancora come irrisolte. Se già all’epoca dell’unificazione italiana era presente in Italia un dibattito riguardante le questioni razziali, lungo l’intero periodo coloniale e in particolare dopo la vittoria italiana nella guerra d’Etiopia e la conseguente dichiarazione dell’impero fascista i discorsi razziali avrebbero acquisito nuova rilevanza, spostando definitivamente le razze ‘altre’ al di fuori dei confini nazionali. Era, questo, un tentativo di costruire quell’idea di identità nazionale che faticava ad esistere realmente a causa della disparità economica tra un Sud rurale spartito tra pochi proprietari terrieri e un Nord più coinvolto nella crescita economica – disparità che si rispecchiava in concezioni fortemente razziste nei confronti dei meridionali. L’unità, inoltre, aveva portato con sé un aggravamento delle condizioni di vita dei contadini, fenomeno, questo, che spinse migliaia di famiglie ad emigrare, nella seconda metà del XIX secolo, in altre parti del mondo, specialmente negli Stati Uniti e in America Latina.
Se prima dell’unità la quota maggiore di emigranti era composta da settentrionali che si spostavano temporaneamente verso paesi europei, con l’unità d’Italia ebbe inizio la migrazione transatlantica, che coinvolgeva tanto gli abitanti del Nord quanto quelli del Sud, ed era un’emigrazione permanente. Come viene sottolineato da Ciuffoletti e Degl’Innocenti, autori di uno dei più esaustivi studi sull’emigrazione italiana ( L’emigrazione nella storia d’Italia 1868-1975, Vallecchi 1968):
Prima del 1887 la componente settentrionale rappresentava il 68 per cento dell’emigrazione italiana e quella meridionale il 27 per cento; negli anni successivi si registrò un’inversione immediata che si fece ancora più marcata ai primi del Novecento portando il contributo settentrionale al 35 per cento e quello meridionale al 47 per cento. Intanto, si poteva assistere al primo manifestarsi dell’esodo anche nelle campagne delle regioni dell’Italia centrale, dove i rapporti di produzione prevalenti, fondati sul sistema mezzadrile, avevano rappresentato un grosso ostacolo sia economico che culturale alla emigrazione. Per finire, volendo dare soltanto alcune cifre a titolo indicativo, mentre il totale dell’emigrazione ammontava nel 1886 a 167.829, la cifra salì nel 1888 a ben 290.736 unità.
Inoltre questo fenomeno era condizionato tanto dalle offerte del mercato del lavoro, quanto dalle condizioni della lotta di classe:
A partire dal 1887, l’emigrazione verso i paesi europei, che pure rimaneva elevata e continuava anzi a salire, fu superata dall’emigrazione diretta verso le Americhe. Al fenomeno era interessata ogni regione italiana, del Nord come del Sud, ma dopo il 1896, ossia dopo la repressione dei Fasci e l’estendersi della crisi agraria, ad aumentare il quoziente dell’emigrazione meridionale intervenne il rapido incremento dell’emigrazione siciliana, diretta – al pari di quella campana e abruzzese – verso gli Stati Uniti.
[…] L’andamento migratorio sembrava dipendere esclusivamente dalla forza di attrazione dei diversi mercati, da quelli forti del Centro Europa a quelli americani in genere. Le cause di ordine interno sembravano incidere sulla composizione regionale del flusso migratorio più che sul ritmo complessivo e sugli aspetti quantitativi. Non a caso decrebbe al Nord e aumentò al Sud in rapporto inverso rispetto al numero di scioperi e allo sviluppo dell’organizzazione sindacale.
Per dare un’idea dell’incidenza del fenomeno migratorio basti dire che alla fine dell’800 l’Italia era il paese europeo con la quota più alta di emigrazione transoceanica e che all’inizio del ’900 la maggior parte della manodopera migrante a livello mondiale proveniva dall’Italia. Gli stessi dati sull’analfabetismo dei migranti, emersi in conseguenza ai ripetuti tentativi statunitensi di rendere più difficoltoso l’accesso al Paese, esprimevano chiaramente le condizioni sociali della gente del Meridione italiano:
Fra il 1899 e il 1910, su 1.690.376 emigranti italiani provenienti dalle regioni meridionali e insulari (compresa la Liguria e la Toscana) quasi il 54%, di età superiore ai 14 anni, non sapeva né leggere, né scrivere.
Decenni più tardi, La Difesa della Razza – pubblicazione quindicinale (1938-1943) allineata all’indirizzo razzista del regime fascista – avrebbe tenuto in grande considerazione l’esperienza emigratoria degli italiani per definire i confini della ‘razza italiana’. A questa tematica vennero dedicati, in particolare, alcuni articoli del numero del 20 novembre 1938, l’intero numero monografico del 5 dicembre 1938 e una parte del numero del 5 gennaio 1939.
Cronologia significativa, in quanto seguiva immediatamente l’entrata in vigore del decreto legge n. 1728 del 17 novembre 1938, cioè i Provvedimenti per la difesa della razza italiana.
Che La Difesa della Razza seguisse attentamente il dibattito politico sulle questioni razziali per amplificarlo è testimoniato dal fatto che già il 20 settembre 1938 era apparso un articolo dedicato al nesso tra ‘razza’ e cittadinanza.
In esso il giudice Baccigalupi accusava i governi liberali di non aver tenuto conto dei principi razziali nella concessione della cittadinanza agli stranieri, mentre gli emigrati erano stati abbandonati al loro destino. Dunque, l’entrata in vigore delle leggi razziali apriva la questione della non corrispondenza dei confini della ‘razza italiana’ con quelli territoriali, e portava in primo piano tanto la realtà dell’emigrazione quanto una rivendicazione di italianità dei territori non regnicoli popolati anche da nuclei di ‘razza italiana’.
Guido Landra, antropologo razzista estensore del Manifesto del Razzismo Italiano, scriveva:
La distribuzione geografica della pura razza italiana non si limita agli italiani tali per cittadinanza. Quando si dice razza si intende affermare un concetto concreto che non risulta da una pura e semplice speculazione spirituale, o da considerazioni storicolinguistiche, ma è invece basato sulla oggettiva constatazione di fatto di una grandiosa verità della Natura. Questa razza italiana, perciò, che si estende molto oltre i confini politici d’Italia, noi la vediamo rappresentata da masse compatte di migliaia e migliaia di uomini e donne in tutto identici a quelli che vivono al di qua dei confini. […] Una razza umana difatti si può paragonare ad un corpo umano, nel quale ogni organo e ogni membro non può essere considerato a sé stante. I confini politici quando non coincidono con quelli razziali rappresentano senza dubbio dei tagli nel corpo armonico della razza; ma se questa razza è forte e vitale, il che vuol dire se questa razza è pura, i tagli costituiti dai confini politici non possono mai essere così profondi da staccare definitivamente la parte dal tutto. […] la realtà concreta della razza non subisce mutamento che per opera dell’imbastardimento.
[Landra Guido, “Razza italiana oltre confine”, in: La Difesa della Razza, II, 2 (20 novembre 1938)]
L’autore passava, poi, ad enumerare i “gruppi di uomini della nostra razza che non hanno la cittadinanza italiana” – fra i quali i Corsi, appartenenti all’antica provincia romana; i Nizzardi, “in tutto identici ai liguri”; gli italiani della Tunisia, “in prevalenza di origine siciliana o sarda”; i Maltesi, “ariani né più né meno che gli altri italiani”. La conclusione di questo percorso nella diaspora mediterranea dell’‘italianità’ non poteva che essere l’ampliamento dell’azione in difesa della razza “ovunque si trovi un nucleo razzialmente italiano”.
Con la proclamazione dell’impero sembrò profilarsi la definitiva soluzione del problema emigratorio: gli italiani non sarebbero più dovuti migrare in terre straniere ora che veniva fornita loro la concreta possibilità di partecipare alla colonizzazione demografica delle terre ‘italiane’ d’oltremare. Sembrava dunque concretizzarsi, con l’impero, quel sogno che da tempo i governi italiani avevano cercato di realizzare: conquistare delle colonie per convogliare in esse la forza lavoro che altrimenti si sarebbe diretta in terre d’altri, e fare dei territori conquistati una culla di ‘italianità’.
Già negli anni ’70 dell’800, cioè prima che l’Italia intraprendesse l’impresa coloniale, erano circolate idee al proposito.
Ne è prova una lettera di Sonnino, inviata al direttore del giornale La Nazione nel 1875, ove si legge:
Io credo che nella questione agraria lo Stato possa e debba intervenire efficacemente e giustamente nei seguenti modi: […]
6) coll’istituire delle colonie italiane a cui dirigere la corrente degli emigranti.
Gli anni ’80 di quel secolo avevano visto la questione dell’emigrazione legarsi in maniera indissolubile al progetto coloniale, e nel 1885, anno del Congresso di Berlino, nel Parlamento italiano De Renzis sostenne la necessità per l’Italia di un “posto al sole dell’Africa”:
Se dunque colonia agricola dobbiam cercare, essa deve essere anzitutto vicina. E non basta: dev’essere creata su terra produttiva, su terreni a buon mercato, ed appartenga a un solo, proprietario e colono al tempo istesso. Sia di colui che vi mette il proprio sudore. […] Noi, o signori, infine questo soltanto domandiamo: di avere anche noi il nostro posto al sole dell’Africa.
Il posto al sole sarebbe poi diventata espressione ricorrente nella propaganda coloniale fascista. La stessa posizione geografica dell’Italia nel Mediterraneo, considerata “il naturale intermediario del commercio fra l’Africa, l’Asia e l’Europa”, venne utilizzata dal colonialismo liberale come ulteriore giustificazione dell’impresa coloniale in Africa.
La colonizzazione sembrava poter risolvere anche altre due altre questioni che premevano ai governi post-unitari.
Da una parte, la creazione di una Magna Italia era presentata come l’antidoto alla dispersione dell’identità nazionale italiana nelle terre d’emigrazione. D’altra parte, la colonizzazione avrebbe permesso il contenimento delle tensioni e del conflitto sociale emersi con i moti contadini in territorio italiano quindi, rappresentava, al contempo, il “miglior provvedimento d’igiene sociale” e di riscatto sociale – “da proletarii in proprietarii”. E fu proprio dai nessi tra la cosiddetta ‘questione meridionale’, i dibattiti sull’emigrazione e la propaganda coloniale di fine ’800 che nacque il “colonialismo meridionalista”, di cui Leopoldo Franchetti fu l’esponente principale. Il deputato Franchetti – “liberale monarchico”, come egli stesso si definì – entrato alla Camera nel 1882, in un intervento su “L’avvenire della nostra colonia”, aveva sostenuto:
Tutte le nazioni del mondo civile, e l’Italia forse più delle altre, sono tormentate dal problema della miseria. In Italia, migliaia di famiglie ricche di braccia atte al lavoro, o non riescono ad impiegarle, o devono impiegarle in lavori il cui compenso non basta ai bisogni più essenziali della vita. È dovere, è interesse dello Stato riservare le terre di cui dispone a quella parte della nazione cui la terra italiana non dà lavoro e pane sufficiente.
Ma la sua rapida disillusione divenne lampante quando, già senatore dal 1909, nell’aprile del 1911 in una seduta del Senato dichiarò:
Non so se l’Italia abbia fatto bene ad entrare nella via coloniale. Io, per l’esperienza che ne ho, dovrei dire che ha fatto molto male; e debbo dire ciò dopo aver amato ardentemente le nostre colonie. Ha fatto molto male perché le nostre classi dirigenti non sono mature, non solo per le imprese di conquista ma anche e soprattutto per impresa di messa in valore; e purtroppo i risultati sono finora disastrosi.
Cercò quindi di intervenire nella formazione delle classi dirigenti ancora ‘immature’. Sfruttando il ruolo di presidente dell’Istituto Agricolo Coloniale e della Società di Studi Geografici e Coloniali, sarebbe, poi, tornato a proporre l’espansione oltremare come soluzione al problema dell’emigrazione e del conflitto sociale.
Nel dicembre del 1910 si tenne a Firenze il primo congresso nazionalista – definito dagli organizzatori, fra cui il leader nazionalista Corradini, “congresso di italianità”. Promozione della politica coloniale e difesa dell’italianità apparivano già fra i punti del programma proposto ai possibili relatori:
c) promuovere una politica coloniale più energica, sia col sospingere l’attività dello Stato e di tutte le forze collettive ed individuali verso la conquista di nuove colonie, sia col favorire tutte le iniziative tendenti a mettere in valore quelle già assicurate al nostro dominio; d) appoggiare tenacemente ogni azione diretta a conservare la nostra nazionalità nelle regioni che costituiscono parte integrante della nazione, ed ovunque l’italianità sia minacciata di soppressione o di assorbimento.
Da qui l’ipotesi che se l’Africa fosse stata colonizzata dall’Italia la condizione del Sud e della Sicilia sarebbe stata ben diversa, addirittura la questione meridionale sarebbe stata risolta. Secondo Corradini, non bisognava aspettare di essere ricchi per colonizzare ma, anzi, la ricchezza sarebbe venuta proprio dal colonialismo. L’aspetto più interessante del suo intervento al congresso fu senza dubbio il discorso sulla “nazione proletaria” – tale espressione, ampiamente utilizzata all’epoca, aveva motivato l’adesione di molti socialisti al progetto coloniale. Corradini l’intendeva addirittura come il superamento della lotta di classe:
Dobbiamo partire dal riconoscimento di questo principio: ci sono nazioni proletarie come ci sono classi proletarie; nazioni, cioè, le cui condizioni di vita sono con svantaggio sottoposte a quelle di altre nazioni, tali quali le classi. Ciò premesso, il nazionalismo deve anzitutto batter sodo su questa verità: l’Italia è una nazione materialmente e moralmente proletaria. Ed è proletaria nel periodo avanti la riscossa, cioè nel periodo preorganico, di cecità e di debilità mentale. Sottoposta alle altre nazioni e debile, non di forze popolari, ma di forze nazionali. Precisamente come il proletariato prima che il socialismo gli si accostasse. I muscoli de’ lavoratori eran forti com’ora, ma che volontà avevano i lavoratori di elevarsi? Erano ciechi sul loro stato. Or che cosa accadde quando il socialismo disse al proletariato la prima parola? Il proletariato si risvegliò, ebbe un primo barlume sul suo stato, intravide la possibilità di mutarlo, concepì il primo proposito di mutarlo. E il socialismo lo trasse con sé, lo spinse a lottare, formò nella lotta la sua unione, la sua coscienza […]. Ebbene, amici, il nazionalismo deve fare qualcosa di simile per la nazione italiana.
Deve essere, a male agguagliare, il nostro socialismo nazionale. Cioè, come il socialismo insegnò al proletariato il valore della lotta di classe, così noi dobbiamo insegnare all’Italia il valore della lotta internazionale. Ma la lotta internazionale è la guerra?
Ebbene, sia la guerra! E il nazionalismo susciti in Italia la volontà della guerra vittoriosa. […] Noi insomma proponiamo un “metodo di redenzione nazionale” e con un’espressione estremamente riassuntiva e concentrata lo chiamiamo “necessità della guerra”. […] Un metodo finalmente per rinnovare un patto di solidarietà di famiglia fra le classi della nazione italiana. […] Insomma, l’Italia da quando è costituita in libertà e in unità, ha perduto due guerre e non ha risolta la quistione del Mezzogiorno. […] Non ha sospettato neppure che si potesse imprimere all’emigrazione un moto verso una finalità nazionale. […] C’è bisogno d’un’opera di revisione generale. Il nazionalismo si propone quest’opera.
L’esperienza dell’emigrazione era talmente radicata negli strati sociali più bassi che la stessa partenza volontaria per la guerra d’Etiopia, nel 1935, veniva vissuta come un processo migratorio – come emerge da una ricerca svolta da Gianni Dore ( Antropologia e colonialismo italiano, miscellanea, 1996) tra i reduci della guerra d’Etiopia provenienti dalle zone rurali della Sardegna. Le testimonianze raccolte tra gli ex soldati-contadini sardi sono eloquenti:
Tutti gli intervistati, partiti volontari, affermano di essere andati in Etiopia “per lavorare”: è significativo che fossero allora servi, pastori, braccianti giornalieri, disoccupati. […] Così la partenza per la guerra diventa una vera e propria emigrazione forzata, aperta da una guerra che, come fa intendere la propaganda e spiegano i reclutatori nei villaggi, la disparità tecnologica tra i due eserciti avrebbe dovuto rendere facile e incruenta. Nei paesi cui appartengono gli intervistati, la partenza degli uomini per l’Africa è vissuta, più che come tragica partecipazione all’evento bellico, come ripetersi del fenomeno ben conosciuto dell’emigrazione.
I prezzi d’ingaggio […] e poi [i] vaglia spediti dall’A.O.I., come delle rimesse, segnano questa peculiarità della guerra coloniale.
Dopo la conquista di Addis Abeba, buona parte dei soldati e militi intervistati fecero domande per restare come coloni; circa 150.000 smobilitandi, secondo le statistiche ufficiali, volevano restare in A.O.I., generando una situazione di caotica confusione. [corsivo mio]
Una tragica condizione sociale, quindi, fatta di miseria e precarietà emerge alle spalle della propaganda bellica.
Alla guerra d’Etiopia non partecipò una massa compatta di conquistatori di convinta fede fascista, come si voleva invece far credere. La fame era una fra le ragioni che spingeva gli uomini a vedere nel progetto coloniale un’alternativa all’emigrazione. La griglia di lettura della propria partecipazione all’impresa, almeno per molti proletari e disoccupati, non era affatto quella dell’appartenenza ad una ‘razza’ di conquistatori, come tuonava sempre più insistente la propaganda, ma quella molto più concreta dell’esperienza migratoria. Ovviamente il fascismo tendeva a non far trasparire questa realtà. Anzi, all’opposto, le “virtù guerriere” venivano esaltate come elemento di identità razziale.
“Spada e vanga” divennero gli strumenti della propaganda coloniale che accompagnò l’Italia nella guerra contro l’Etiopia. Conquistata l’Etiopia e dichiarato l’Impero dell’Africa Orientale Italiana, si trattava ora di far rientrare gli emigrati e far confluire anche la loro forza lavoro nelle colonie.
Mentre in Italia il terreno sperimentale per la ‘fusione materiale’ in un’unica ‘razza’ era costituito dalle zone bonificate che venivano via via popolate secondo un preciso progetto di “ruralizzazione dell’Italia”, la guerra contro l’Etiopia, il rientro degli emigrati e la colonizzazione demografica dei territori dell’impero avrebbero dovuto sancire la definitiva fusione razziale degli italiani. Sarebbe stata cancellata per sempre quella distinzione razziale tra italiani del Nord e del Sud che, all’indomani dell’unificazione italiana, era diventata un luogo comune ampiamente condiviso – luogo comune che aveva anche trovato una legittimazione ideologica nei nuovi saperi dominanti. In Italia, infatti, nel secondo ’800, l’affermarsi delle discipline antropologiche era andato di pari passo con lo sviluppo e la diffusione di discorsi scientifici sull’inferiorità razziale anche dei meridionali, legittimandone lo sfruttamento.
È noto che il termine ‘razza’ ha un’ambigua etimologia. Ma La Difesa della Razza ne trovò un etimo molto utile per la costruzione dell’intero apparato ideologico: il termine latino radix (radice). La Difesa della Razza come strumento ideologico del regime ebbe un ruolo attivo anche nel ridefinire la funzione dell’antropologia. La “purezza razziale”, a parere degli antropologi razzisti, non andava cercata nel passato ma doveva invece essere un progetto per il futuro. Veniva così a delinearsi un’antropologia di taglio politico che guardasse all’avvenire. Il razzismo sarebbe, così, assurto a motore dell’evoluzione umana, rappresentando un istinto di conservazione razziale che avrebbe spinto alla formazione delle comunità e, successivamente, dello Stato:
Così lo Stato nasce razzista. […] la razza così detta pura non rappresenta un passato ma un divenire. Pertanto, nel proclamarsi francamente, decisamente razzista, lo Stato moderno non rinnega la sua origine, ma si perfeziona.[Nieddu Ubaldo, “Razza e diritto”, in: La Difesa della Razza, II, 9 (5 marzo 1939)]
Scrive Guido Landra nel numero monografico di La Difesa della Razza dedicato al ‘meticciato’ (20 marzo 1940):
Sono state le applicazioni della dottrina dell’ereditarietà alla scienza dell’uomo che hanno trasformato la vecchia antropologia nella moderna biologia delle razze umane. Nella biologia delle razze umane lo studio dei meticci occupa un posto di primo ordine ed è sui risultati di tale studio che trova la sua giustificazione scientifica la politica razziale coloniale.
Per comprendere gli obiettivi e la portata di questo “studio dei meticci” occorre ripercorrere il dibattito sul meticciato a partire dal colonialismo prefascista, quando la ‘questione’ dei meticci si imperniava fondamentalmente sui criteri per l’attribuzione della cittadinanza.
Un meticcio può essere considerato italiano? Intorno a questa domanda si sviluppò un lungo dibattito giuridicorazziale al cui centro venne emergendo con sempre maggiore chiarezza la categoria di ‘razza italiana’. La prima vera e propria legge che si occupa dei meticci risale al 1914. Si tratta di un decreto sulle Modificazioni all’ordinamento del personale civile che negava ai figli di unioni miste la possibilità di divenire ufficiali coloniali.
Per quanto riguarda le politiche razziali e sessuali con cui il regime sostenne la ‘lotta al meticciato’, la data chiave è il 9 maggio 1936, quando Mussolini proclamò la fondazione dell’impero dell’Africa Orientale Italiana. Il 21 maggio seguente la Gazzetta del Popolo pubblicava l’articolo “L’impero italiano non può essere un impero di mulatti”. Il 23 maggio la volontà del regime di separare i “coloni italiani” dai “nativi abissini” divenne nota a livello internazionale; il giorno stesso il corrispondente a Roma del giornale News Chronicle in un articolo annotò la concomitanza tra la messa al bando di “Faccetta nera” e l’improvvisa scomparsa, dalle vetrine dei negozi, delle cartoline erotiche che rappresentavano giovanissime donne africane. Il 13 giugno 1936 la Gazzetta del Popolo pubblicò in prima pagina un articolo di Paolo Monelli contro “Faccetta nera”, intitolato “Moglie e buoi dei paesi tuoi” – segnale inequivocabile di una svolta nella politica di razza.
Il nuovo Ordinamento e amministrazione dell’Africa Orientale Italiana, approvato il 1 giugno 1936, cancellò – e dunque abolì di fatto – gli articoli sull’acquisizione della cittadinanza per i meticci. Nell’agosto dello stesso anno un documento riservato del nuovo ministro delle colonie Lessona, indirizzato al viceré Graziani e quindi a tutti i governatori coloniali, definiva le Direttive di azione per l’organizzazione e l’avvaloramento dell’A.O.I. Attraverso queste direttive si separava la politica indigena da quella dei cittadini italiani nelle colonie, in nome della necessità di una “netta separazione tra le due razze, bianca e nera” – primo sentore di quelle che sarebbero state le vere e proprie leggi di apartheid promulgate nel 1939, nelle quali, tra l’altro, si disponeva per indagini sulla paternità dei meticci e punizione dei colpevoli. Cancellata, dunque, la possibilità di venire riconosciuti come cittadini italiani, i meticci sarebbero stati considerati appartenenti alla ‘razza nera’, come venne definitivamente sancito dalla legge del 13 maggio 1940 – in base a cui il meticcio veniva assorbito nella categoria di “nativo”, e tale sarebbe rimasto per la legge italiana fino al 1947. Sul meticciato Landra non risparmia neppure gli “zingari”, cui viene attribuita la tendenza al delitto come fattore legato al sangue, dunque ereditario:
[…] il pericolo dell’incrocio con gli zingari, dei quali sono note le tendenze al vagabondaggio e al ladroneccio. […] è difatti verosimile che il sangue zingaro sia presente in quasi tutti gli individui che vanno vagando a guisa degli zingari e che ne esercitano le stesse attività antisociali. [Landra Guido, “Il problema dei meticci in Europa”, in: La Difesa della Razza, IV, 1 (5 novembre 1941)]
“Separazione assoluta e netta tra le due razze” e “Collaborazione senza promiscuità” erano fra le parole d’ordine con cui il ministro delle colonie Lessona intendeva prevenire “romanamente” ogni forma di “scivolamento verso la promiscuità sociale” ed impostare il principio della “collaborazione fascista” tra italiani e colonizzati dell’A.O.I.
La formazione della “coscienza di razza” veniva a definirsi come “seconda natura che impronterà di sé tutta la vita e le azioni degli italiani dell’Impero”. Poiché “per dominare gli altri occorre dominare se stessi”, agli italiani in colonia si richiedeva un “continuo controllo di se stessi” che modificasse completamente “la intima essenza del proprio io”. Che gli italiani in colonia facessero della “coscienza di razza” una seconda natura, ne garantiva ciò che Foucault definisce governamentalità, cioè l’interdipendenza tra le tecnologie del dominio sugli altri e le tecnologie del sé. Gli imperativi che dovevano regolare la vita del funzionario coloniale – “Mantenere il prestigio”, “Sindacarsi, vigilarsi, sorvegliarsi” e “Non insabbiarsi” – diventavano validi per ogni italiano che si trovasse nei territori colonizzati.
E se queste tecnologie del sé toccavano ogni aspetto della quotidianità in colonia, soprattutto in campo sessuale bisognava autocontrollarsi.
La nuova mentalità imperiale doveva fondarsi sul prestigio di razza. E questo significava separare la ‘razza’ colonizzatrice dalla ‘razza’ colonizzata. Sforzi molteplici vennero convogliati su questo obiettivo principale. Per divulgare il nuovo discorso razzista era funzionale attingere da rappresentazioni che, un tempo minoritarie, alimentate dal nuovo corso razzista potevano diventare egemoniche. A questo mirava il tentativo di generare un senso di disgusto basato sull’uso del burro rancido o sulla presunta caducità della bellezza delle donne africane. Il discorso medico, dal canto suo, insisteva sulle patologie di cui donne e uomini africani sarebbero stati portatori, con un particolare accento sulle malattie a trasmissione sessuale.
Ma proprio la crescente preoccupazione per il diffondersi di malattie veneree all’interno delle truppe italiane, aveva dato luogo già col colonialismo liberale non solo a precise politiche igienico-sanitarie, ma anche a politiche sessuali: si riteneva molto più sano ed igienico che un uomo italiano in colonia vivesse per un certo periodo con una donna africana che gli facesse da serva nella casa e nel letto, piuttosto che rivolgersi alla prostituzione locale. L’esito
fu la sempre più ampia diffusione di una forma di convivenza temporanea tra italiani e donne colonizzate – il cosiddetto “madamato” (o “madamismo”) – contro cui il regime imperiale si sarebbe, poi, ferocemente scagliato in quanto generatrice di ‘meticci’.
Se consideriamo i dati sulle nascite, per quanto approssimativi, vediamo che a fronte dei 1.300 nati prima del 1935, nella decade successiva ci fu un notevole incremento delle nascite, per cui ne abbiamo 2.750 “riconosciuti” e 12.200 “non riconosciuti”. Nella sola Asmara, fra il 1937 e il 1940 nel registro comunale delle nascite risulterebbero 2.594 meticci; d’altra parte è impossibile stabilire il numero di meticci non registrati. Tali dati dimostrano inconfutabilmente il fallimento delle politiche sessuali del regime nelle colonie, ancora più evidente se consideriamo la crescita esponenziale delle convivenze tra donne eritree e uomini italiani, dovuto al maggiore afflusso nelle colonie d’oltremare dopo la dichiarazione dell’impero: 1.150 nel 1935, 10.000 nel 1937, 15.000 nel 1940. Né la costituzione, nel 1938, di un’apposita polizia sessuale – la “squadra del madamismo” – nelle colonie, né le condanne nei processi contro italiani che convivessero con “suddite” arginarono in alcun modo il fenomeno del meticciato.
La separazione tra ‘razze’ risale, in realtà, già al primo periodo coloniale. Secondo l’excursus di Francesca Locatelli (“Ordine coloniale e disordine sociale. Asmara durante il colonialismo italiano (1890-1941)”, in: Zapruder, settembre-dicembre 2005), che analizza le politiche segregazioniste e in particolare il caso esemplare di Asmara, essa seguì la repressione italiana contro le popolazioni locali: “la segregazione razziale divenne evidente nei primissimi anni di occupazione, intorno al 1889-1892, e si sviluppò in maniera più organica per l’intero periodo coloniale”.
Attraverso i discorsi sull’ igiene e sulla pubblica sicurezza, nonché sulla moralità e rispettabilità, l’amministrazione coloniale giustificò dall’inizio la segregazione urbana– dunque anche mediante la gestione e il controllo della prostituzione.
I pretesti di tipo igienico-sanitario furono, infatti, funzionali all’imposizione dell’ordine coloniale in quanto svolsero un ruolo fondamentale nel processo di ‘italianizzazione’ del territorio urbano e nella conseguente marginalizzazione delle popolazioni locali mediante l’affermazione dei principi segregazionisti e la diffusione di una mentalità fortemente razzista. Già nel 1902 era stata approvata la prima parte della pianificazione urbana realizzata, in particolare per la “zona italiana”, dal Genio Civile. Nel 1908, sotto l’amministrazione di Salvago Raggi, venne elaborato per la città di Asmara un piano regolatore complessivo che sarebbe poi servito da modello anche per altri centri urbani eritrei. In esso troviamo la prima pianificazione della segregazione, dove ad aree separate della città corrispondeva una sorta di divisione razziale: una zona “europea”, una zona “mista” (detta “promiscua”) “abitata da europei, mercanti arabi, indiani, greci, ebrei e africani”, una zona esclusivamente “indigena” e un’ultima zona ad uso industriale.
Nel 1914, una serie di decreti avrebbe cominciato a sancire il restringimento della mobilità nel territorio urbano per la popolazione “nativa”, e i principi segregazionisti alla base di questa divisione si sarebbero rafforzati con l’aumento della popolazione, fino ad arrivare alla fase imperiale in cui alla separazione degli spazi urbani sarebbe corrisposta la “istituzionalizzazione di due sfere di vita diverse per italiani e ‘nativi’” – cioè un vero e proprio regime di apartheid.Nel dicembre del 1936 venne creato un Comitato di colonizzazione il cui scopo era quello di pianificare l’insediamento dei nuovi coloni provenienti dall’Italia. Il primo Congresso nazionale di Urbanistica che si tenne nel 1937 affrontò in termini inequivocabili la questione della zonizzazione delle città coloniali. In quell’occasione l’ingegnere Luigi Dodi, libero docente al Politecnico di Milano, sostenne che la separazione fra quartieri rispondeva a diverse esigenze:
Evitare i conflitti che potrebbero sorgere della promiscuità e tacitamente evitare d’altra parte che la promiscuità stessa abbia eventualmente a convertirsi in solidarietà, non del tutto desiderabile dal punto di vista politico.
Nel 1938, l’architetto Cafiero progettò per Asmara un modello di città – poi realizzato solo in parte – basato sulle leggi razziali appena approvate dal regime e sul principio enunciato dal Gran Consiglio del Fascismo secondo cui “Il problema ebraico non è che l’aspetto metropolitano di un problema di carattere generale”. Fra il 1937 e il 1940 i piani regolatori per le città colonizzate dell’Africa Orientale Italiana fornivano minuziose descrizioni ai fini della separazione razziale, arrivando perfino a prefigurare, per una “Città coloniale perfetta”, un’apposita “stazione di bonifica umana”, una sorta di check point igienico-sanitario per gli “indigeni” che intendessero accedere – per ragioni lavorative, ovviamente! – alla zona “nazionale”. Ma il concetto di bonifica umana comprendeva anche gli sgomberi coatti in cui si distruggevano col fuoco le capanne degli “indigeni”, che venivano poi deportati nei quartieri a loro destinati o “l’espropriazione delle varie soprastrutture abitate da indigeni site nelle vicinanze degli alloggi nazionali”.
È interessante notare come i privilegi di razza si rispecchiassero negli spazi a disposizione pro capite: se ad Asmara erano previsti 140 abitanti per ettaro nella zona “europea” e 380 per ettaro nella zona “indigena”, per Gimma, meno densamente abitata, le proporzioni previste non cambiano: 133 unità abitative per ettaro nella zona “indigena” a fronte dei 37 abitanti “nazionali” per ettaro.
Già all’indomani della conquista dell’Etiopia, il 5 agosto 1936, il ministro Lessona aveva impartito delle precise disposizioni al viceré Graziani: separazione tra le abitazioni “nazionali” e quelle “indigene”, evitare “ogni famigliarità [ sic] fra le due razze”, divieto per gli “indigeni” di frequentare i luoghi pubblici per “bianchi” e, ovviamente, affrontare “con estremo rigore – secondo gli ordini del Duce – la questione del ‘madamismo’ e dello ‘sciarmuttismo’ [cioè la prostituzione]”. Corollari di quest’ultimo punto erano provvedimenti quali l’obbligo per i coniugati di portare la moglie in colonia, limitare quanto più possibile i contatti fra italiani e colonizzate e organizzare case di tolleranza, anche ambulanti, con prostitute bianche.
Nel 1937 i governatori coloniali vararono una sequela di provvedimenti specifici per separare gli europei dalla popolazione locale dal punto di vista abitativo e lavorativo, nella frequentazione degli esercizi pubblici, dei luoghi di svago e dei trasporti.
Un decreto legge del 19 aprile 1937 proibiva il matrimonio tra “nazionali” e “sudditi”, punendolo con pene detentive fino a 5 anni. L’istruzione e il lavoro, ambiti in cui già pre-vigeva un regime di differenziazione razziale – compresi gli istituti missionari – vennero ulteriormente disciplinati in senso segregativo e finalizzato allo sfruttamento della forza-lavoro locale, contemplando anche la possibilità di lavori forzati.
Si trattava di rendere l’“indigeno” “obbediente, rispettoso e disciplinato” e sfruttare il lavoro “indigeno” col pretesto della tutela razziale del lavoro. Non sorprende che in Etiopia nel 1936 la paga giornaliera di un operaio italiano corrispondesse alla paga di un “indigeno” per cinque mesi di lavoro, come testimonia il giornalista Ciro Poggiali nel suo Diario AOI.
Oltre a perseguire i “sudditi” che oltrepassavano la linea di demarcazione dell’inferiorità razziale imposta loro dal governo coloniale, il regime mise in atto politiche in difesa del prestigio di razza che, come nel caso delle unioni miste, miravano a perseguire con forza e determinazione gli italiani che si riteneva avessero in qualche modo leso tale “prestigio”. Questa fu la funzione attribuita alle Sanzioni penali per la difesa del prestigio di razza nei confronti dei nativi dell’Africa Italiana (legge 1004 del 29.6.1939), che riconoscevano una sorta di aggravante se i reati erano commessi “in circostanze lesive del prestigio di razza” come, ad esempio, in presenza di “nativi” o con il loro concorso.
Tali sanzioni erano state in certo modo preannunciate da Mussolini nel famoso discorso di Trieste del settembre 1938 quando, davanti a 200mila persone, dichiarò:
Il problema razziale non è scoppiato all’improvviso, come pensano coloro i quali sono abituati ai bruschi risvegli, perché sono abituati ai lunghi sonni poltroni. È in relazione con la conquista dell’Impero; poiché la storia ci insegna che gli imperi si conquistano con le armi, ma si tengono con il prestigio. E per il prestigio occorre una chiara, severa coscienza razziale che stabilisca non soltanto delle differenze, ma delle superiorità nettissime.
Alla fine del 1938 un anticipo delle discriminazioni e della segregazione veicolate da tali sanzioni venne pubblicato sulla rivista Etiopia, quindi ad uso degli italiani in colonia:
Per il prestigio della razza nell’Impero
Non vogliamo vedere l’indigeno testimoniare contro il bianco.
Non vogliamo vedere un bianco ammanettato per le vie dei centri coloniali.
Non vogliamo leggere cronache giudiziarie in giornali coloniali che parlino di condanne di bianchi[cosa che, invece, all’epoca era frequente, nota mia].
Non vogliamo leggere cronache di arresti, furti e reati infamanti che si riferiscono a bianchi nella stampa dell’Impero [altra cosa frequente all’epoca , nota mia].
Non vogliamo vedere agenti della forza pubblica intervenire in favore di un nero quando sorge una contesa fra questo e un bianco.
Non vogliamo vedere neri e bianchi confusi nella stessa anticamera.
Non vogliamo vedere concessionari neri di spacci, distributori di benzina, etc. associati con bianchi.
Ricordare sempre che il più umile dei bianchi è centomila volte superiore a tutti i cosiddetti notabili indigeni messi insieme.
Non è possibile comprendere a fondo le implicazioni delle politiche razziali e sessuali del regime nelle colonie senza considerare al contempo le politiche indirizzate alle donne ‘di razza italiana’ – che chiamerò, con una sineddoche, uteri littori. Significative sono, al proposito, le parole di Carlo Rossetti, segretario generale dell’Istituto Fascista dell’Africa Italiana:
Senza la donna non si propaga la razza; senza la fecondità, o meglio, la volontà di fecondità della donna non si assurge a potenza demografica; vano, infine, sarebbe parlare di popolare l’Impero di metropolitani se non si sottintendesse e delle loro donne. E che questa, di popolare le terre italiane d’Oltremare non di soli uomini sia la precisa volontà del Duce e però comandamento e direttiva per tutta la nostra opera di colonizzazione imperiale, lo vediamo da tante provvidenze di governo che vanno dalle leggi per la prevenzione del meticciato alla trasmigrazione per successive ondate di molte famiglie in Libia; dai Corsi per la preparazione della donna alla vita coloniale, affidati dal Partito alle cure del nostro Istituto di concerto con le Federazioni di Fasci Femminili e con i Comandi Federali della G.I.L., alla fondazione delle aziende agricole, tutte popolate di nostre famiglie di rurali, di Romagna d’Etiopia, Veneto d’Etiopia, cui da ultimo si è aggiunta Aosta d’Etiopia. […] Così, da qualunque parte si guardi, sia dal lato della politica demografica, sia da quello della purezza della razza, o dell’avvaloramento dell’Impero o, ancora dei rapporti con gli indigeni, tutto ci porta a prevedere un forte e ordinato esodo di donne verso quelle terre. [Istituto Fascista dell’Africa Italiana, Elementi pratici di vita coloniale per le Organizzazioni Femminili del P.N.F. e della G.I.L.. L’edizione cui faccio riferimentoqui è la ristampa del 1941-XIX]
Con questo intervento presento alcuni estratti di una mia ricerca sulla genealogia delle politiche razziali e sessuali nell’impero coloniale fascista che sarà pubblicato all’inizio di maggio dalla cooperativa editrice Sensibili alle Foglie col titolo Difendere la ‘razza’. La tesi di fondo del mio lavoro è che se – come sostiene Luciano Parinetto nel suo La traversata delle streghe nei nomi e nei luoghi (Colibrì, 1997) – il Nuovo Mondo è stato il terreno sperimentale dei dispositivi della caccia alle streghe europea, il Corno d’Africa è stato il laboratorio delle politiche razziali e sessuali attuate nell’Italia fascista. Analogamente, le attuali politiche securitarie rappresentano la sperimentazione, sulla pelle dei/delle migranti, di politiche di controllo e repressione. Una sorta di “colonialismo interno” che si legittima proprio con la riattivazione di vecchi e sperimentati dispositivi razzisti e de-umanizzanti formatisi nei cinquant’anni di esperienza coloniale in Africa e con cui non sono mai stati fatti i conti.
Uno dei più importanti storici del colonialismo italiano, Angelo Del Boca, nel saggio I crimini del colonialismo fascista ha documentato la censura in Italia su pratiche di incarcerazione nelle colonie, atti di squadrismo, apartheid, guerra chimica, eccidi e deportazioni di massa, campi di sterminio. Altrove Del Boca avanza anche un’interessante ipotesi su silenzi, censure e rimozioni da cui ancora oggi è affetta la nostra memoria storica. Non si tratterebbe semplicemente degli effetti della propaganda fascista, ma anche di precise responsabilità politiche successive:
La mancata punizione per crimini così gravi ha ingenerato nella maggioranza degli italiani una visione assolutamente sfocata o distorta dei fatti accaduti in Africa. Ma forse è più esatto parlare di rimozione quasi totale, nella memoria e nella cultura del nostro paese, del fenomeno del colonialismo e degli arbitri, soprusi, crimini, genocidi ad esso connessi. A più di cento anni dallo sbarco a Massaua del colonnello Tancredi Saletta e a mezzo secolo dall’aggressione fascista all’Etiopia, l’Italia repubblicana non ha ancora saputo sbarazzarsi dei miti e delle leggende che si sono formati nel secolo scorso, mentre una minoranza non insignificante di nostalgici li coltiva amorevolmente e li difende con iattanza. Questa rimozione dei crimini è dovuta soprattutto al fatto che in Italia, a differenza che in altri paesi, non è mai stato promosso un serio, organico ed esauriente dibattito sul fenomeno del colonialismo. Si è anzi tentato, da parte di alcune istituzioni dello Stato, di intorbidire le acque con il preciso disegno di impedire che la verità affiorasse, mentre una storiografia di segno moderato o revisionista favorisce palesemente la rimozione delle colpe coloniali. [Del Boca Angelo, “Introduzione”, in: Del Boca Angelo (a cura di), Le guerre coloniali del fascismo, Laterza 1991]
Premetto che uso il termine ‘razza’ tra virgolette perché questa categoria è reale solo in quanto effetto di rapporti di potere e non ha nulla di biologico. Analizzerò ora la genealogia di questo dispositivo identitario in relazione al processo di costruzione nazionale in Italia.
Alberto Banti, nel suo La nazione del Risorgimento, esplora i dispositivi attraverso cui si è costituita l’identità nazionale, a partire da testi che costituirono una sorta di ‘canone’ di riferimento per la costruzione dell’immaginario patriottico risorgimentale. Fra gli elementi che emergono dalla sua ricerca, alcuni li possiamo ritrovare, aggiornati, nella propaganda dell’impero fascista. L’ onore, in particolare, categoria-valore che dalla società cetuale venne ripresa e fatta propria dal linguaggio patriottico, in epoca fascista imperiale sarebbe riapparsa, aggiornata, nella formula del prestigio di razza che tutti i cittadini erano tenuti a difendere.
La difesa dell’onore implicava, secondo Banti, una ridefinizione precisa dei ruoli di genere:
Nella struttura delle narrazioni i fondamentali valori da difendere o da riscattare sono la valentía militare, la concordia, la purezza delle donne. Ciascuno di essi corrisponde a differenti funzioni svolte dai personaggi fondamentali della narrazione […], e sono collocate all’interno di un sistema gerarchico, nel quale il secondo e il terzo valore dipendono, in definitiva, dal primo: affinché una comunità possa vivere in concordia – vale a dire senza tradimenti e lotte intestine –, e affinché le donne della comunitàpossano preservare la loro purezza, è necessario che gli uomini […] sappiano usare il loro valore militare, così da poter ottenereil rispetto degli stranieri, ma anche dei membri moralmente più deboli della comunità, vale a dire quelli più esposti alle sirene del tradimento. Il tema della minaccia all’onore delle donne ha un ruolo cruciale nell’economia di questo discorso. […] Nel linguaggio dell’onore […] la verginità, ma anche la purezza, di una donna sono espressioni simboliche che scandiscono i confini relazionali di un gruppo rispetto ad altri gruppi. Nell’evoluzione dei vari codici dell’onore dell’Europa moderna, i confini riguardano solitamente la perimetrazione dei gruppi che articolano le società di ordini (i ceti); nella trasposizione di questo linguaggio dentro la narrativa nazionale, il confine simbolico va a circondare comunità differenti, le cui caratteristiche fondamentali non appartengono più alla sfera del sociale (lo status, la collocazione economica, il potere), ma alla sfera dell’etnicità e della territorialità.
E fu proprio ad una nuova perimetrazione etnico-territoriale che si assistette quando, all’indomani della conquista dell’Etiopia, Mussolini affermò “Gli imperi si conquistano con le armi, ma si mantengono con il prestigio”. Questo motto sanciva la politica di segregazione razziale che avrebbe accompagnato gli anni dell’impero nell’Africa Orientale Italiana (A.O.I.). Fu infatti con la conquista dell’Etiopia e la costituzione dell’A.O.I. (Regio decreto 1010, 1 giugno 1936) che il termine ‘prestigio’ acquisì maggior potere evocativo e fu sempre più utilizzato come elemento-chiave della propaganda razzista. Successiva ad altre leggi che disciplinavano le relazioni razziali nei territori italiani d’oltremare, la legge n. 1004 del 29 giugno 1939, due anni dopo la dichiarazione dell’impero, si focalizzava in modo particolare sulla difesa del prestigio di razza.Se nel Risorgimento la costruzione dell’identità nazionale aveva implicato la ‘nazionalizzazione dell’onore’, che spostava la questione dal piano delle relazioni private a quelle sociali e collettive, durante il regime imperiale fascista avvenne una sorta di imperializzazione dell’onore: perseguibile era non solo l’italiano che, in qualche modo, ‘tradiva’ la posizione razziale egemonica in cui l’impero di Mussolini l’aveva posto, ma anche il colonizzato che offendendo un singolo italiano faceva un affronto all’intera ‘razza’ dominante. La propaganda razzista del regime di Mussolini fece uso di una precisa strategia: produrre nuovi elementi ideologici richiamandosi a qualcosa di già familiare alla cultura italiana. Riattivando, quindi, dei dispositivi e innestandovi concezioni specifiche del regime fascista spesso suffragate da nuove conoscenze ‘scientifiche’ abilmente adattate allo scopo.
La concezione degli italiani come appartenenti ad una stessa ‘razza’ aveva già fatto la sua comparsa proprio in alcuni testi del ‘canone’ risorgimentale. Dalla rappresentazione dell’Italia come madre che chiama i propri figli – i famosi ‘Fratelli d’Italia’ evocati tutt’oggi nell’inno nazionale – a difendere il suo onore in pericolo, e dalla traduzione di questa relazione parentale nell’“idea del carattere naturale della comunità nazionale”, si arrivò alla denotazione della nazione come “comunità fondata sull’unione politica, geografica ed etnografica”, cioè anche razziale. E se poteva esserci, per gli autori, un oscillare tra concezione razziale e concezione culturalista, come nel caso di Cesare Correnti, altre volte la razza era chiaramente nominata come “importante elemento costitutivo della nazione”, e in questi termini veniva legata strettamente alla cittadinanza intrecciando, così, lo ius sanguinis allo ius soli,significativa traccia di un discorso sull’identità razziale italiana che grande importanza avrebbe avuto nella successiva elaborazione fascista – come vedremo a proposito del ‘meticciato’.
Indagare la genealogia della categoria di ‘razza’ nella cultura italiana, si è visto, permette di portare alla luce la produzione di pensiero che stava alla radice dell’identità nazionale. Le questioni razziali che emersero tra Nord e Sud Italia lungo il periodo dell’unificazione nazionale, all’avvento del fascismo si presentavano ancora come irrisolte. Se già all’epoca dell’unificazione italiana era presente in Italia un dibattito riguardante le questioni razziali, lungo l’intero periodo coloniale e in particolare dopo la vittoria italiana nella guerra d’Etiopia e la conseguente dichiarazione dell’impero fascista i discorsi razziali avrebbero acquisito nuova rilevanza, spostando definitivamente le razze ‘altre’ al di fuori dei confini nazionali. Era, questo, un tentativo di costruire quell’idea di identità nazionale che faticava ad esistere realmente a causa della disparità economica tra un Sud rurale spartito tra pochi proprietari terrieri e un Nord più coinvolto nella crescita economica – disparità che si rispecchiava in concezioni fortemente razziste nei confronti dei meridionali. L’unità, inoltre, aveva portato con sé un aggravamento delle condizioni di vita dei contadini, fenomeno, questo, che spinse migliaia di famiglie ad emigrare, nella seconda metà del XIX secolo, in altre parti del mondo, specialmente negli Stati Uniti e in America Latina.
Se prima dell’unità la quota maggiore di emigranti era composta da settentrionali che si spostavano temporaneamente verso paesi europei, con l’unità d’Italia ebbe inizio la migrazione transatlantica, che coinvolgeva tanto gli abitanti del Nord quanto quelli del Sud, ed era un’emigrazione permanente. Come viene sottolineato da Ciuffoletti e Degl’Innocenti, autori di uno dei più esaustivi studi sull’emigrazione italiana ( L’emigrazione nella storia d’Italia 1868-1975, Vallecchi 1968):
Prima del 1887 la componente settentrionale rappresentava il 68 per cento dell’emigrazione italiana e quella meridionale il 27 per cento; negli anni successivi si registrò un’inversione immediata che si fece ancora più marcata ai primi del Novecento portando il contributo settentrionale al 35 per cento e quello meridionale al 47 per cento. Intanto, si poteva assistere al primo manifestarsi dell’esodo anche nelle campagne delle regioni dell’Italia centrale, dove i rapporti di produzione prevalenti, fondati sul sistema mezzadrile, avevano rappresentato un grosso ostacolo sia economico che culturale alla emigrazione. Per finire, volendo dare soltanto alcune cifre a titolo indicativo, mentre il totale dell’emigrazione ammontava nel 1886 a 167.829, la cifra salì nel 1888 a ben 290.736 unità.
Inoltre questo fenomeno era condizionato tanto dalle offerte del mercato del lavoro, quanto dalle condizioni della lotta di classe:
A partire dal 1887, l’emigrazione verso i paesi europei, che pure rimaneva elevata e continuava anzi a salire, fu superata dall’emigrazione diretta verso le Americhe. Al fenomeno era interessata ogni regione italiana, del Nord come del Sud, ma dopo il 1896, ossia dopo la repressione dei Fasci e l’estendersi della crisi agraria, ad aumentare il quoziente dell’emigrazione meridionale intervenne il rapido incremento dell’emigrazione siciliana, diretta – al pari di quella campana e abruzzese – verso gli Stati Uniti.
[…] L’andamento migratorio sembrava dipendere esclusivamente dalla forza di attrazione dei diversi mercati, da quelli forti del Centro Europa a quelli americani in genere. Le cause di ordine interno sembravano incidere sulla composizione regionale del flusso migratorio più che sul ritmo complessivo e sugli aspetti quantitativi. Non a caso decrebbe al Nord e aumentò al Sud in rapporto inverso rispetto al numero di scioperi e allo sviluppo dell’organizzazione sindacale.
Per dare un’idea dell’incidenza del fenomeno migratorio basti dire che alla fine dell’800 l’Italia era il paese europeo con la quota più alta di emigrazione transoceanica e che all’inizio del ’900 la maggior parte della manodopera migrante a livello mondiale proveniva dall’Italia. Gli stessi dati sull’analfabetismo dei migranti, emersi in conseguenza ai ripetuti tentativi statunitensi di rendere più difficoltoso l’accesso al Paese, esprimevano chiaramente le condizioni sociali della gente del Meridione italiano:
Fra il 1899 e il 1910, su 1.690.376 emigranti italiani provenienti dalle regioni meridionali e insulari (compresa la Liguria e la Toscana) quasi il 54%, di età superiore ai 14 anni, non sapeva né leggere, né scrivere.
Decenni più tardi, La Difesa della Razza – pubblicazione quindicinale (1938-1943) allineata all’indirizzo razzista del regime fascista – avrebbe tenuto in grande considerazione l’esperienza emigratoria degli italiani per definire i confini della ‘razza italiana’. A questa tematica vennero dedicati, in particolare, alcuni articoli del numero del 20 novembre 1938, l’intero numero monografico del 5 dicembre 1938 e una parte del numero del 5 gennaio 1939.
Cronologia significativa, in quanto seguiva immediatamente l’entrata in vigore del decreto legge n. 1728 del 17 novembre 1938, cioè i Provvedimenti per la difesa della razza italiana.
Che La Difesa della Razza seguisse attentamente il dibattito politico sulle questioni razziali per amplificarlo è testimoniato dal fatto che già il 20 settembre 1938 era apparso un articolo dedicato al nesso tra ‘razza’ e cittadinanza.
In esso il giudice Baccigalupi accusava i governi liberali di non aver tenuto conto dei principi razziali nella concessione della cittadinanza agli stranieri, mentre gli emigrati erano stati abbandonati al loro destino. Dunque, l’entrata in vigore delle leggi razziali apriva la questione della non corrispondenza dei confini della ‘razza italiana’ con quelli territoriali, e portava in primo piano tanto la realtà dell’emigrazione quanto una rivendicazione di italianità dei territori non regnicoli popolati anche da nuclei di ‘razza italiana’.
Guido Landra, antropologo razzista estensore del Manifesto del Razzismo Italiano, scriveva:
La distribuzione geografica della pura razza italiana non si limita agli italiani tali per cittadinanza. Quando si dice razza si intende affermare un concetto concreto che non risulta da una pura e semplice speculazione spirituale, o da considerazioni storicolinguistiche, ma è invece basato sulla oggettiva constatazione di fatto di una grandiosa verità della Natura. Questa razza italiana, perciò, che si estende molto oltre i confini politici d’Italia, noi la vediamo rappresentata da masse compatte di migliaia e migliaia di uomini e donne in tutto identici a quelli che vivono al di qua dei confini. […] Una razza umana difatti si può paragonare ad un corpo umano, nel quale ogni organo e ogni membro non può essere considerato a sé stante. I confini politici quando non coincidono con quelli razziali rappresentano senza dubbio dei tagli nel corpo armonico della razza; ma se questa razza è forte e vitale, il che vuol dire se questa razza è pura, i tagli costituiti dai confini politici non possono mai essere così profondi da staccare definitivamente la parte dal tutto. […] la realtà concreta della razza non subisce mutamento che per opera dell’imbastardimento.
[Landra Guido, “Razza italiana oltre confine”, in: La Difesa della Razza, II, 2 (20 novembre 1938)]
L’autore passava, poi, ad enumerare i “gruppi di uomini della nostra razza che non hanno la cittadinanza italiana” – fra i quali i Corsi, appartenenti all’antica provincia romana; i Nizzardi, “in tutto identici ai liguri”; gli italiani della Tunisia, “in prevalenza di origine siciliana o sarda”; i Maltesi, “ariani né più né meno che gli altri italiani”. La conclusione di questo percorso nella diaspora mediterranea dell’‘italianità’ non poteva che essere l’ampliamento dell’azione in difesa della razza “ovunque si trovi un nucleo razzialmente italiano”.
Con la proclamazione dell’impero sembrò profilarsi la definitiva soluzione del problema emigratorio: gli italiani non sarebbero più dovuti migrare in terre straniere ora che veniva fornita loro la concreta possibilità di partecipare alla colonizzazione demografica delle terre ‘italiane’ d’oltremare. Sembrava dunque concretizzarsi, con l’impero, quel sogno che da tempo i governi italiani avevano cercato di realizzare: conquistare delle colonie per convogliare in esse la forza lavoro che altrimenti si sarebbe diretta in terre d’altri, e fare dei territori conquistati una culla di ‘italianità’.
Già negli anni ’70 dell’800, cioè prima che l’Italia intraprendesse l’impresa coloniale, erano circolate idee al proposito.
Ne è prova una lettera di Sonnino, inviata al direttore del giornale La Nazione nel 1875, ove si legge:
Io credo che nella questione agraria lo Stato possa e debba intervenire efficacemente e giustamente nei seguenti modi: […]
6) coll’istituire delle colonie italiane a cui dirigere la corrente degli emigranti.
Gli anni ’80 di quel secolo avevano visto la questione dell’emigrazione legarsi in maniera indissolubile al progetto coloniale, e nel 1885, anno del Congresso di Berlino, nel Parlamento italiano De Renzis sostenne la necessità per l’Italia di un “posto al sole dell’Africa”:
Se dunque colonia agricola dobbiam cercare, essa deve essere anzitutto vicina. E non basta: dev’essere creata su terra produttiva, su terreni a buon mercato, ed appartenga a un solo, proprietario e colono al tempo istesso. Sia di colui che vi mette il proprio sudore. […] Noi, o signori, infine questo soltanto domandiamo: di avere anche noi il nostro posto al sole dell’Africa.
Il posto al sole sarebbe poi diventata espressione ricorrente nella propaganda coloniale fascista. La stessa posizione geografica dell’Italia nel Mediterraneo, considerata “il naturale intermediario del commercio fra l’Africa, l’Asia e l’Europa”, venne utilizzata dal colonialismo liberale come ulteriore giustificazione dell’impresa coloniale in Africa.
La colonizzazione sembrava poter risolvere anche altre due altre questioni che premevano ai governi post-unitari.
Da una parte, la creazione di una Magna Italia era presentata come l’antidoto alla dispersione dell’identità nazionale italiana nelle terre d’emigrazione. D’altra parte, la colonizzazione avrebbe permesso il contenimento delle tensioni e del conflitto sociale emersi con i moti contadini in territorio italiano quindi, rappresentava, al contempo, il “miglior provvedimento d’igiene sociale” e di riscatto sociale – “da proletarii in proprietarii”. E fu proprio dai nessi tra la cosiddetta ‘questione meridionale’, i dibattiti sull’emigrazione e la propaganda coloniale di fine ’800 che nacque il “colonialismo meridionalista”, di cui Leopoldo Franchetti fu l’esponente principale. Il deputato Franchetti – “liberale monarchico”, come egli stesso si definì – entrato alla Camera nel 1882, in un intervento su “L’avvenire della nostra colonia”, aveva sostenuto:
Tutte le nazioni del mondo civile, e l’Italia forse più delle altre, sono tormentate dal problema della miseria. In Italia, migliaia di famiglie ricche di braccia atte al lavoro, o non riescono ad impiegarle, o devono impiegarle in lavori il cui compenso non basta ai bisogni più essenziali della vita. È dovere, è interesse dello Stato riservare le terre di cui dispone a quella parte della nazione cui la terra italiana non dà lavoro e pane sufficiente.
Ma la sua rapida disillusione divenne lampante quando, già senatore dal 1909, nell’aprile del 1911 in una seduta del Senato dichiarò:
Non so se l’Italia abbia fatto bene ad entrare nella via coloniale. Io, per l’esperienza che ne ho, dovrei dire che ha fatto molto male; e debbo dire ciò dopo aver amato ardentemente le nostre colonie. Ha fatto molto male perché le nostre classi dirigenti non sono mature, non solo per le imprese di conquista ma anche e soprattutto per impresa di messa in valore; e purtroppo i risultati sono finora disastrosi.
Cercò quindi di intervenire nella formazione delle classi dirigenti ancora ‘immature’. Sfruttando il ruolo di presidente dell’Istituto Agricolo Coloniale e della Società di Studi Geografici e Coloniali, sarebbe, poi, tornato a proporre l’espansione oltremare come soluzione al problema dell’emigrazione e del conflitto sociale.
Nel dicembre del 1910 si tenne a Firenze il primo congresso nazionalista – definito dagli organizzatori, fra cui il leader nazionalista Corradini, “congresso di italianità”. Promozione della politica coloniale e difesa dell’italianità apparivano già fra i punti del programma proposto ai possibili relatori:
c) promuovere una politica coloniale più energica, sia col sospingere l’attività dello Stato e di tutte le forze collettive ed individuali verso la conquista di nuove colonie, sia col favorire tutte le iniziative tendenti a mettere in valore quelle già assicurate al nostro dominio; d) appoggiare tenacemente ogni azione diretta a conservare la nostra nazionalità nelle regioni che costituiscono parte integrante della nazione, ed ovunque l’italianità sia minacciata di soppressione o di assorbimento.
Da qui l’ipotesi che se l’Africa fosse stata colonizzata dall’Italia la condizione del Sud e della Sicilia sarebbe stata ben diversa, addirittura la questione meridionale sarebbe stata risolta. Secondo Corradini, non bisognava aspettare di essere ricchi per colonizzare ma, anzi, la ricchezza sarebbe venuta proprio dal colonialismo. L’aspetto più interessante del suo intervento al congresso fu senza dubbio il discorso sulla “nazione proletaria” – tale espressione, ampiamente utilizzata all’epoca, aveva motivato l’adesione di molti socialisti al progetto coloniale. Corradini l’intendeva addirittura come il superamento della lotta di classe:
Dobbiamo partire dal riconoscimento di questo principio: ci sono nazioni proletarie come ci sono classi proletarie; nazioni, cioè, le cui condizioni di vita sono con svantaggio sottoposte a quelle di altre nazioni, tali quali le classi. Ciò premesso, il nazionalismo deve anzitutto batter sodo su questa verità: l’Italia è una nazione materialmente e moralmente proletaria. Ed è proletaria nel periodo avanti la riscossa, cioè nel periodo preorganico, di cecità e di debilità mentale. Sottoposta alle altre nazioni e debile, non di forze popolari, ma di forze nazionali. Precisamente come il proletariato prima che il socialismo gli si accostasse. I muscoli de’ lavoratori eran forti com’ora, ma che volontà avevano i lavoratori di elevarsi? Erano ciechi sul loro stato. Or che cosa accadde quando il socialismo disse al proletariato la prima parola? Il proletariato si risvegliò, ebbe un primo barlume sul suo stato, intravide la possibilità di mutarlo, concepì il primo proposito di mutarlo. E il socialismo lo trasse con sé, lo spinse a lottare, formò nella lotta la sua unione, la sua coscienza […]. Ebbene, amici, il nazionalismo deve fare qualcosa di simile per la nazione italiana.
Deve essere, a male agguagliare, il nostro socialismo nazionale. Cioè, come il socialismo insegnò al proletariato il valore della lotta di classe, così noi dobbiamo insegnare all’Italia il valore della lotta internazionale. Ma la lotta internazionale è la guerra?
Ebbene, sia la guerra! E il nazionalismo susciti in Italia la volontà della guerra vittoriosa. […] Noi insomma proponiamo un “metodo di redenzione nazionale” e con un’espressione estremamente riassuntiva e concentrata lo chiamiamo “necessità della guerra”. […] Un metodo finalmente per rinnovare un patto di solidarietà di famiglia fra le classi della nazione italiana. […] Insomma, l’Italia da quando è costituita in libertà e in unità, ha perduto due guerre e non ha risolta la quistione del Mezzogiorno. […] Non ha sospettato neppure che si potesse imprimere all’emigrazione un moto verso una finalità nazionale. […] C’è bisogno d’un’opera di revisione generale. Il nazionalismo si propone quest’opera.
L’esperienza dell’emigrazione era talmente radicata negli strati sociali più bassi che la stessa partenza volontaria per la guerra d’Etiopia, nel 1935, veniva vissuta come un processo migratorio – come emerge da una ricerca svolta da Gianni Dore ( Antropologia e colonialismo italiano, miscellanea, 1996) tra i reduci della guerra d’Etiopia provenienti dalle zone rurali della Sardegna. Le testimonianze raccolte tra gli ex soldati-contadini sardi sono eloquenti:
Tutti gli intervistati, partiti volontari, affermano di essere andati in Etiopia “per lavorare”: è significativo che fossero allora servi, pastori, braccianti giornalieri, disoccupati. […] Così la partenza per la guerra diventa una vera e propria emigrazione forzata, aperta da una guerra che, come fa intendere la propaganda e spiegano i reclutatori nei villaggi, la disparità tecnologica tra i due eserciti avrebbe dovuto rendere facile e incruenta. Nei paesi cui appartengono gli intervistati, la partenza degli uomini per l’Africa è vissuta, più che come tragica partecipazione all’evento bellico, come ripetersi del fenomeno ben conosciuto dell’emigrazione.
I prezzi d’ingaggio […] e poi [i] vaglia spediti dall’A.O.I., come delle rimesse, segnano questa peculiarità della guerra coloniale.
Dopo la conquista di Addis Abeba, buona parte dei soldati e militi intervistati fecero domande per restare come coloni; circa 150.000 smobilitandi, secondo le statistiche ufficiali, volevano restare in A.O.I., generando una situazione di caotica confusione. [corsivo mio]
Una tragica condizione sociale, quindi, fatta di miseria e precarietà emerge alle spalle della propaganda bellica.
Alla guerra d’Etiopia non partecipò una massa compatta di conquistatori di convinta fede fascista, come si voleva invece far credere. La fame era una fra le ragioni che spingeva gli uomini a vedere nel progetto coloniale un’alternativa all’emigrazione. La griglia di lettura della propria partecipazione all’impresa, almeno per molti proletari e disoccupati, non era affatto quella dell’appartenenza ad una ‘razza’ di conquistatori, come tuonava sempre più insistente la propaganda, ma quella molto più concreta dell’esperienza migratoria. Ovviamente il fascismo tendeva a non far trasparire questa realtà. Anzi, all’opposto, le “virtù guerriere” venivano esaltate come elemento di identità razziale.
“Spada e vanga” divennero gli strumenti della propaganda coloniale che accompagnò l’Italia nella guerra contro l’Etiopia. Conquistata l’Etiopia e dichiarato l’Impero dell’Africa Orientale Italiana, si trattava ora di far rientrare gli emigrati e far confluire anche la loro forza lavoro nelle colonie.
Mentre in Italia il terreno sperimentale per la ‘fusione materiale’ in un’unica ‘razza’ era costituito dalle zone bonificate che venivano via via popolate secondo un preciso progetto di “ruralizzazione dell’Italia”, la guerra contro l’Etiopia, il rientro degli emigrati e la colonizzazione demografica dei territori dell’impero avrebbero dovuto sancire la definitiva fusione razziale degli italiani. Sarebbe stata cancellata per sempre quella distinzione razziale tra italiani del Nord e del Sud che, all’indomani dell’unificazione italiana, era diventata un luogo comune ampiamente condiviso – luogo comune che aveva anche trovato una legittimazione ideologica nei nuovi saperi dominanti. In Italia, infatti, nel secondo ’800, l’affermarsi delle discipline antropologiche era andato di pari passo con lo sviluppo e la diffusione di discorsi scientifici sull’inferiorità razziale anche dei meridionali, legittimandone lo sfruttamento.
È noto che il termine ‘razza’ ha un’ambigua etimologia. Ma La Difesa della Razza ne trovò un etimo molto utile per la costruzione dell’intero apparato ideologico: il termine latino radix (radice). La Difesa della Razza come strumento ideologico del regime ebbe un ruolo attivo anche nel ridefinire la funzione dell’antropologia. La “purezza razziale”, a parere degli antropologi razzisti, non andava cercata nel passato ma doveva invece essere un progetto per il futuro. Veniva così a delinearsi un’antropologia di taglio politico che guardasse all’avvenire. Il razzismo sarebbe, così, assurto a motore dell’evoluzione umana, rappresentando un istinto di conservazione razziale che avrebbe spinto alla formazione delle comunità e, successivamente, dello Stato:
Così lo Stato nasce razzista. […] la razza così detta pura non rappresenta un passato ma un divenire. Pertanto, nel proclamarsi francamente, decisamente razzista, lo Stato moderno non rinnega la sua origine, ma si perfeziona.[Nieddu Ubaldo, “Razza e diritto”, in: La Difesa della Razza, II, 9 (5 marzo 1939)]
Scrive Guido Landra nel numero monografico di La Difesa della Razza dedicato al ‘meticciato’ (20 marzo 1940):
Sono state le applicazioni della dottrina dell’ereditarietà alla scienza dell’uomo che hanno trasformato la vecchia antropologia nella moderna biologia delle razze umane. Nella biologia delle razze umane lo studio dei meticci occupa un posto di primo ordine ed è sui risultati di tale studio che trova la sua giustificazione scientifica la politica razziale coloniale.
Per comprendere gli obiettivi e la portata di questo “studio dei meticci” occorre ripercorrere il dibattito sul meticciato a partire dal colonialismo prefascista, quando la ‘questione’ dei meticci si imperniava fondamentalmente sui criteri per l’attribuzione della cittadinanza.
Un meticcio può essere considerato italiano? Intorno a questa domanda si sviluppò un lungo dibattito giuridicorazziale al cui centro venne emergendo con sempre maggiore chiarezza la categoria di ‘razza italiana’. La prima vera e propria legge che si occupa dei meticci risale al 1914. Si tratta di un decreto sulle Modificazioni all’ordinamento del personale civile che negava ai figli di unioni miste la possibilità di divenire ufficiali coloniali.
Per quanto riguarda le politiche razziali e sessuali con cui il regime sostenne la ‘lotta al meticciato’, la data chiave è il 9 maggio 1936, quando Mussolini proclamò la fondazione dell’impero dell’Africa Orientale Italiana. Il 21 maggio seguente la Gazzetta del Popolo pubblicava l’articolo “L’impero italiano non può essere un impero di mulatti”. Il 23 maggio la volontà del regime di separare i “coloni italiani” dai “nativi abissini” divenne nota a livello internazionale; il giorno stesso il corrispondente a Roma del giornale News Chronicle in un articolo annotò la concomitanza tra la messa al bando di “Faccetta nera” e l’improvvisa scomparsa, dalle vetrine dei negozi, delle cartoline erotiche che rappresentavano giovanissime donne africane. Il 13 giugno 1936 la Gazzetta del Popolo pubblicò in prima pagina un articolo di Paolo Monelli contro “Faccetta nera”, intitolato “Moglie e buoi dei paesi tuoi” – segnale inequivocabile di una svolta nella politica di razza.
Il nuovo Ordinamento e amministrazione dell’Africa Orientale Italiana, approvato il 1 giugno 1936, cancellò – e dunque abolì di fatto – gli articoli sull’acquisizione della cittadinanza per i meticci. Nell’agosto dello stesso anno un documento riservato del nuovo ministro delle colonie Lessona, indirizzato al viceré Graziani e quindi a tutti i governatori coloniali, definiva le Direttive di azione per l’organizzazione e l’avvaloramento dell’A.O.I. Attraverso queste direttive si separava la politica indigena da quella dei cittadini italiani nelle colonie, in nome della necessità di una “netta separazione tra le due razze, bianca e nera” – primo sentore di quelle che sarebbero state le vere e proprie leggi di apartheid promulgate nel 1939, nelle quali, tra l’altro, si disponeva per indagini sulla paternità dei meticci e punizione dei colpevoli. Cancellata, dunque, la possibilità di venire riconosciuti come cittadini italiani, i meticci sarebbero stati considerati appartenenti alla ‘razza nera’, come venne definitivamente sancito dalla legge del 13 maggio 1940 – in base a cui il meticcio veniva assorbito nella categoria di “nativo”, e tale sarebbe rimasto per la legge italiana fino al 1947. Sul meticciato Landra non risparmia neppure gli “zingari”, cui viene attribuita la tendenza al delitto come fattore legato al sangue, dunque ereditario:
[…] il pericolo dell’incrocio con gli zingari, dei quali sono note le tendenze al vagabondaggio e al ladroneccio. […] è difatti verosimile che il sangue zingaro sia presente in quasi tutti gli individui che vanno vagando a guisa degli zingari e che ne esercitano le stesse attività antisociali. [Landra Guido, “Il problema dei meticci in Europa”, in: La Difesa della Razza, IV, 1 (5 novembre 1941)]
“Separazione assoluta e netta tra le due razze” e “Collaborazione senza promiscuità” erano fra le parole d’ordine con cui il ministro delle colonie Lessona intendeva prevenire “romanamente” ogni forma di “scivolamento verso la promiscuità sociale” ed impostare il principio della “collaborazione fascista” tra italiani e colonizzati dell’A.O.I.
La formazione della “coscienza di razza” veniva a definirsi come “seconda natura che impronterà di sé tutta la vita e le azioni degli italiani dell’Impero”. Poiché “per dominare gli altri occorre dominare se stessi”, agli italiani in colonia si richiedeva un “continuo controllo di se stessi” che modificasse completamente “la intima essenza del proprio io”. Che gli italiani in colonia facessero della “coscienza di razza” una seconda natura, ne garantiva ciò che Foucault definisce governamentalità, cioè l’interdipendenza tra le tecnologie del dominio sugli altri e le tecnologie del sé. Gli imperativi che dovevano regolare la vita del funzionario coloniale – “Mantenere il prestigio”, “Sindacarsi, vigilarsi, sorvegliarsi” e “Non insabbiarsi” – diventavano validi per ogni italiano che si trovasse nei territori colonizzati.
E se queste tecnologie del sé toccavano ogni aspetto della quotidianità in colonia, soprattutto in campo sessuale bisognava autocontrollarsi.
La nuova mentalità imperiale doveva fondarsi sul prestigio di razza. E questo significava separare la ‘razza’ colonizzatrice dalla ‘razza’ colonizzata. Sforzi molteplici vennero convogliati su questo obiettivo principale. Per divulgare il nuovo discorso razzista era funzionale attingere da rappresentazioni che, un tempo minoritarie, alimentate dal nuovo corso razzista potevano diventare egemoniche. A questo mirava il tentativo di generare un senso di disgusto basato sull’uso del burro rancido o sulla presunta caducità della bellezza delle donne africane. Il discorso medico, dal canto suo, insisteva sulle patologie di cui donne e uomini africani sarebbero stati portatori, con un particolare accento sulle malattie a trasmissione sessuale.
Ma proprio la crescente preoccupazione per il diffondersi di malattie veneree all’interno delle truppe italiane, aveva dato luogo già col colonialismo liberale non solo a precise politiche igienico-sanitarie, ma anche a politiche sessuali: si riteneva molto più sano ed igienico che un uomo italiano in colonia vivesse per un certo periodo con una donna africana che gli facesse da serva nella casa e nel letto, piuttosto che rivolgersi alla prostituzione locale. L’esito
fu la sempre più ampia diffusione di una forma di convivenza temporanea tra italiani e donne colonizzate – il cosiddetto “madamato” (o “madamismo”) – contro cui il regime imperiale si sarebbe, poi, ferocemente scagliato in quanto generatrice di ‘meticci’.
Se consideriamo i dati sulle nascite, per quanto approssimativi, vediamo che a fronte dei 1.300 nati prima del 1935, nella decade successiva ci fu un notevole incremento delle nascite, per cui ne abbiamo 2.750 “riconosciuti” e 12.200 “non riconosciuti”. Nella sola Asmara, fra il 1937 e il 1940 nel registro comunale delle nascite risulterebbero 2.594 meticci; d’altra parte è impossibile stabilire il numero di meticci non registrati. Tali dati dimostrano inconfutabilmente il fallimento delle politiche sessuali del regime nelle colonie, ancora più evidente se consideriamo la crescita esponenziale delle convivenze tra donne eritree e uomini italiani, dovuto al maggiore afflusso nelle colonie d’oltremare dopo la dichiarazione dell’impero: 1.150 nel 1935, 10.000 nel 1937, 15.000 nel 1940. Né la costituzione, nel 1938, di un’apposita polizia sessuale – la “squadra del madamismo” – nelle colonie, né le condanne nei processi contro italiani che convivessero con “suddite” arginarono in alcun modo il fenomeno del meticciato.
La separazione tra ‘razze’ risale, in realtà, già al primo periodo coloniale. Secondo l’excursus di Francesca Locatelli (“Ordine coloniale e disordine sociale. Asmara durante il colonialismo italiano (1890-1941)”, in: Zapruder, settembre-dicembre 2005), che analizza le politiche segregazioniste e in particolare il caso esemplare di Asmara, essa seguì la repressione italiana contro le popolazioni locali: “la segregazione razziale divenne evidente nei primissimi anni di occupazione, intorno al 1889-1892, e si sviluppò in maniera più organica per l’intero periodo coloniale”.
Attraverso i discorsi sull’ igiene e sulla pubblica sicurezza, nonché sulla moralità e rispettabilità, l’amministrazione coloniale giustificò dall’inizio la segregazione urbana– dunque anche mediante la gestione e il controllo della prostituzione.
I pretesti di tipo igienico-sanitario furono, infatti, funzionali all’imposizione dell’ordine coloniale in quanto svolsero un ruolo fondamentale nel processo di ‘italianizzazione’ del territorio urbano e nella conseguente marginalizzazione delle popolazioni locali mediante l’affermazione dei principi segregazionisti e la diffusione di una mentalità fortemente razzista. Già nel 1902 era stata approvata la prima parte della pianificazione urbana realizzata, in particolare per la “zona italiana”, dal Genio Civile. Nel 1908, sotto l’amministrazione di Salvago Raggi, venne elaborato per la città di Asmara un piano regolatore complessivo che sarebbe poi servito da modello anche per altri centri urbani eritrei. In esso troviamo la prima pianificazione della segregazione, dove ad aree separate della città corrispondeva una sorta di divisione razziale: una zona “europea”, una zona “mista” (detta “promiscua”) “abitata da europei, mercanti arabi, indiani, greci, ebrei e africani”, una zona esclusivamente “indigena” e un’ultima zona ad uso industriale.
Nel 1914, una serie di decreti avrebbe cominciato a sancire il restringimento della mobilità nel territorio urbano per la popolazione “nativa”, e i principi segregazionisti alla base di questa divisione si sarebbero rafforzati con l’aumento della popolazione, fino ad arrivare alla fase imperiale in cui alla separazione degli spazi urbani sarebbe corrisposta la “istituzionalizzazione di due sfere di vita diverse per italiani e ‘nativi’” – cioè un vero e proprio regime di apartheid.Nel dicembre del 1936 venne creato un Comitato di colonizzazione il cui scopo era quello di pianificare l’insediamento dei nuovi coloni provenienti dall’Italia. Il primo Congresso nazionale di Urbanistica che si tenne nel 1937 affrontò in termini inequivocabili la questione della zonizzazione delle città coloniali. In quell’occasione l’ingegnere Luigi Dodi, libero docente al Politecnico di Milano, sostenne che la separazione fra quartieri rispondeva a diverse esigenze:
Evitare i conflitti che potrebbero sorgere della promiscuità e tacitamente evitare d’altra parte che la promiscuità stessa abbia eventualmente a convertirsi in solidarietà, non del tutto desiderabile dal punto di vista politico.
Nel 1938, l’architetto Cafiero progettò per Asmara un modello di città – poi realizzato solo in parte – basato sulle leggi razziali appena approvate dal regime e sul principio enunciato dal Gran Consiglio del Fascismo secondo cui “Il problema ebraico non è che l’aspetto metropolitano di un problema di carattere generale”. Fra il 1937 e il 1940 i piani regolatori per le città colonizzate dell’Africa Orientale Italiana fornivano minuziose descrizioni ai fini della separazione razziale, arrivando perfino a prefigurare, per una “Città coloniale perfetta”, un’apposita “stazione di bonifica umana”, una sorta di check point igienico-sanitario per gli “indigeni” che intendessero accedere – per ragioni lavorative, ovviamente! – alla zona “nazionale”. Ma il concetto di bonifica umana comprendeva anche gli sgomberi coatti in cui si distruggevano col fuoco le capanne degli “indigeni”, che venivano poi deportati nei quartieri a loro destinati o “l’espropriazione delle varie soprastrutture abitate da indigeni site nelle vicinanze degli alloggi nazionali”.
È interessante notare come i privilegi di razza si rispecchiassero negli spazi a disposizione pro capite: se ad Asmara erano previsti 140 abitanti per ettaro nella zona “europea” e 380 per ettaro nella zona “indigena”, per Gimma, meno densamente abitata, le proporzioni previste non cambiano: 133 unità abitative per ettaro nella zona “indigena” a fronte dei 37 abitanti “nazionali” per ettaro.
Già all’indomani della conquista dell’Etiopia, il 5 agosto 1936, il ministro Lessona aveva impartito delle precise disposizioni al viceré Graziani: separazione tra le abitazioni “nazionali” e quelle “indigene”, evitare “ogni famigliarità [ sic] fra le due razze”, divieto per gli “indigeni” di frequentare i luoghi pubblici per “bianchi” e, ovviamente, affrontare “con estremo rigore – secondo gli ordini del Duce – la questione del ‘madamismo’ e dello ‘sciarmuttismo’ [cioè la prostituzione]”. Corollari di quest’ultimo punto erano provvedimenti quali l’obbligo per i coniugati di portare la moglie in colonia, limitare quanto più possibile i contatti fra italiani e colonizzate e organizzare case di tolleranza, anche ambulanti, con prostitute bianche.
Nel 1937 i governatori coloniali vararono una sequela di provvedimenti specifici per separare gli europei dalla popolazione locale dal punto di vista abitativo e lavorativo, nella frequentazione degli esercizi pubblici, dei luoghi di svago e dei trasporti.
Un decreto legge del 19 aprile 1937 proibiva il matrimonio tra “nazionali” e “sudditi”, punendolo con pene detentive fino a 5 anni. L’istruzione e il lavoro, ambiti in cui già pre-vigeva un regime di differenziazione razziale – compresi gli istituti missionari – vennero ulteriormente disciplinati in senso segregativo e finalizzato allo sfruttamento della forza-lavoro locale, contemplando anche la possibilità di lavori forzati.
Si trattava di rendere l’“indigeno” “obbediente, rispettoso e disciplinato” e sfruttare il lavoro “indigeno” col pretesto della tutela razziale del lavoro. Non sorprende che in Etiopia nel 1936 la paga giornaliera di un operaio italiano corrispondesse alla paga di un “indigeno” per cinque mesi di lavoro, come testimonia il giornalista Ciro Poggiali nel suo Diario AOI.
Oltre a perseguire i “sudditi” che oltrepassavano la linea di demarcazione dell’inferiorità razziale imposta loro dal governo coloniale, il regime mise in atto politiche in difesa del prestigio di razza che, come nel caso delle unioni miste, miravano a perseguire con forza e determinazione gli italiani che si riteneva avessero in qualche modo leso tale “prestigio”. Questa fu la funzione attribuita alle Sanzioni penali per la difesa del prestigio di razza nei confronti dei nativi dell’Africa Italiana (legge 1004 del 29.6.1939), che riconoscevano una sorta di aggravante se i reati erano commessi “in circostanze lesive del prestigio di razza” come, ad esempio, in presenza di “nativi” o con il loro concorso.
Tali sanzioni erano state in certo modo preannunciate da Mussolini nel famoso discorso di Trieste del settembre 1938 quando, davanti a 200mila persone, dichiarò:
Il problema razziale non è scoppiato all’improvviso, come pensano coloro i quali sono abituati ai bruschi risvegli, perché sono abituati ai lunghi sonni poltroni. È in relazione con la conquista dell’Impero; poiché la storia ci insegna che gli imperi si conquistano con le armi, ma si tengono con il prestigio. E per il prestigio occorre una chiara, severa coscienza razziale che stabilisca non soltanto delle differenze, ma delle superiorità nettissime.
Alla fine del 1938 un anticipo delle discriminazioni e della segregazione veicolate da tali sanzioni venne pubblicato sulla rivista Etiopia, quindi ad uso degli italiani in colonia:
Per il prestigio della razza nell’Impero
Non vogliamo vedere l’indigeno testimoniare contro il bianco.
Non vogliamo vedere un bianco ammanettato per le vie dei centri coloniali.
Non vogliamo leggere cronache giudiziarie in giornali coloniali che parlino di condanne di bianchi[cosa che, invece, all’epoca era frequente, nota mia].
Non vogliamo leggere cronache di arresti, furti e reati infamanti che si riferiscono a bianchi nella stampa dell’Impero [altra cosa frequente all’epoca , nota mia].
Non vogliamo vedere agenti della forza pubblica intervenire in favore di un nero quando sorge una contesa fra questo e un bianco.
Non vogliamo vedere neri e bianchi confusi nella stessa anticamera.
Non vogliamo vedere concessionari neri di spacci, distributori di benzina, etc. associati con bianchi.
Ricordare sempre che il più umile dei bianchi è centomila volte superiore a tutti i cosiddetti notabili indigeni messi insieme.
Non è possibile comprendere a fondo le implicazioni delle politiche razziali e sessuali del regime nelle colonie senza considerare al contempo le politiche indirizzate alle donne ‘di razza italiana’ – che chiamerò, con una sineddoche, uteri littori. Significative sono, al proposito, le parole di Carlo Rossetti, segretario generale dell’Istituto Fascista dell’Africa Italiana:
Senza la donna non si propaga la razza; senza la fecondità, o meglio, la volontà di fecondità della donna non si assurge a potenza demografica; vano, infine, sarebbe parlare di popolare l’Impero di metropolitani se non si sottintendesse e delle loro donne. E che questa, di popolare le terre italiane d’Oltremare non di soli uomini sia la precisa volontà del Duce e però comandamento e direttiva per tutta la nostra opera di colonizzazione imperiale, lo vediamo da tante provvidenze di governo che vanno dalle leggi per la prevenzione del meticciato alla trasmigrazione per successive ondate di molte famiglie in Libia; dai Corsi per la preparazione della donna alla vita coloniale, affidati dal Partito alle cure del nostro Istituto di concerto con le Federazioni di Fasci Femminili e con i Comandi Federali della G.I.L., alla fondazione delle aziende agricole, tutte popolate di nostre famiglie di rurali, di Romagna d’Etiopia, Veneto d’Etiopia, cui da ultimo si è aggiunta Aosta d’Etiopia. […] Così, da qualunque parte si guardi, sia dal lato della politica demografica, sia da quello della purezza della razza, o dell’avvaloramento dell’Impero o, ancora dei rapporti con gli indigeni, tutto ci porta a prevedere un forte e ordinato esodo di donne verso quelle terre. [Istituto Fascista dell’Africa Italiana, Elementi pratici di vita coloniale per le Organizzazioni Femminili del P.N.F. e della G.I.L.. L’edizione cui faccio riferimentoqui è la ristampa del 1941-XIX]
La citazione è tratta dal testo utilizzato nei “Corsi di preparazione per donne alla vita coloniale”, avviati in occasione dell’anniversario della presa di Macallè, l’8 novembre del 1937. Questi corsi, della durata di tre mesi e suddivisi tra un parte teorica e una pratica, prevedevano un minimo di tre lezioni settimanali e degli esami finali in base a cui veniva rilasciato un certificato d’idoneità, titolo necessario per avanzare domanda d’invio nelle colonie. Ai corsi facevano, poi, seguito dei campi pre-coloniali in località italiane, a cura dei Fasci Femminili, e un campo nazionale coloniale femminile in Libia, che l’Istituto Fascista dell’Africa Italiana organizzava in quattro turni annuali (9 e 24 giugno, 15 e 29 settembre). Modelli esemplari di retto comportamento femminile nelle colonie e indicazioni di igiene coloniale venivano forniti a piene mani alle donne che si apprestavano a recarvicisi.
L’accresciuta presenza di donne italiane in colonia implicò la costruzione di un cordone sanitario che, oltre a garantirle dal contagio di malattie sessuali contratte dai mariti – spesso sposati per procura – cui si ricongiungevano, assicurasse l’assoluta mancanza di contatti fra queste e gli uomini africani. La possibilità di relazioni sessuali delle italiane con i “sudditi”, vera e propria sfida alle gerarchie di razza e genere, era temuta ancor di più in funzione della
divisione sessuale del lavoro riproduttivo secondo la quale la donna, in quanto portatrice del patrimonio biologico, avrebbe avuto maggiore responsabilità nella difesa della razza rispetto all’uomo, considerato portatore del carattere morale.
Dal punto di vista giuridico, per un’italiana generare un figlio con un “suddito” avrebbe significato generare un figlio anch’esso “suddito” – oltre che rischiare di diventare a sua volta “suddita” per legge. Già il Codice Rocco aveva sancito questa asimmetria, punendo in maniera diversa quando si trattava di un matrimonio tra una donna bianca e un uomo nero.
Per Mussolini, ogni residuo di autonomia femminile doveva venire definitivamente debellato: a partire dal 1933, con l’istituzione della “Giornata della madre e del fanciullo”, aveva cercato di convincere le donne dell’importanza di questo compito e delle gratificazioni che ne derivavano; con l’impero tale processo raggiunse il suo apice e da una strategia premiale si passò alla feroce colpevolizzazione delle donne che disertavano il loro compito essenziale.
Nicola Pende – il quale, oltre che sottoscrittore del Manifesto del Razzismo Italiano, era anche il medico endocrinologo creatore dell’Istituto Biotipologico Ortogenetico nonché l’ideatore del “libretto individuale biotipologico sanitario” finalizzato all’ ortogenesi della stirpe– attaccò frontalmente la “disposizione anticoncezionale nella donna adulta, moderna”. Della “donna moderna”, soprattutto se urbanizzata, Pende enumerava i due “tipi anormali”: “La donna agiata ad abitudini edonistiche anticasalinghe e la donna povera lavoratrice delle officine, dei negozi e degli uffici, che limitano volontariamente le proprie abitudini materne”. E richiamava le politiche di ‘mescolanza’ tra donne e uomini italiani miranti a rafforzare la ‘razza’:
La eugenetica matrimoniale della razza deve anche contemplare la grande utilità, stabilità, della genetica umana, di favorire i matrimoni fra soggetti di stirpi etniche diverse, ma entro i confini d’Italia e non fuori d’Italia. L’incrocio fra stirpi italiche diverse, ma tutte egualmente ricche di valori somatici e spirituali e d’antichissima nobiltà di sangue, può favorire l’emergenza di figli di qualità superiore, ed anche geniali. E occorre in questo continuare l’opera di Roma ed amalgamare, anche col metodo delle migrazioni interne, le varie stirpi italiche. […] Italici con italici, deve essere il motto eugenico nostro dal lato della politica matrimoniale […]. [Nicola Pende, “La terra, la donna e la razza”, in: Gerarchia, ottobre 1938]
Alla donna venne attribuito il ruolo eugenetico di migliorare – quindi non solo di conservare – il patrimonio biologico della ‘razza’:
È la donna geneticamente sana che spesso compensa con la sua forza vitale e la sua normale eredità i difetti ereditari od acquisiti del marito, che sarà per l’Italia uno dei pilastri più fondamentali alla bonifica della razza.
Per quanto gli effetti reali delle politiche nataliste del regime siano stati assai discutibili, di fronte a queste nuove responsabilità per la difesa della ‘razza’, la sessualità femminile divenne sempre più l’assillo del controllo totalitario.
Dal 1930-31 il Codice Rocco aveva sancito per legge il controllo della sessualità femminile, definendo l’uso di anticoncezionali e l’interruzione di gravidanza come “reati contro l’integrità e la sanità della stirpe” (artt. 545-553).
Intanto il Vaticano, con l’enciclica Casti connubi (1930), si era scagliato contro le pratiche di controllo delle nascite.
Nonostante nella realtà gli effetti degli aborti clandestini fossero spesso invalidanti, quando non mortali, poco importava della salute della donna quanto, invece, dei suoi effetti sulla società e sulla ‘razza’.
Addirittura si arrivava al paradosso per cui la donna che, in conseguenza della pratica abortiva, era diventata “impotente a procreare”, rischiava di essere considerata doppiamente colpevole di “reati contro l’integrità della stirpe”!
Perduto il dominio sull’impero e su gran parte del territorio nazionale, e ormai ridotto a governare uno stato fantoccio – la Repubblica Sociale Italiana – nel novembre del 1944 il fascismo ebbe un ultimo, paradossale, conato razzista.
Una circolare riservata e diretta a questori, podestà e commissari prefettizi dichiarava che “in forza di una legge suprema di difesa dell’onore e della razza” l’aborto era possibile nei casi in cui una donna fosse stata violentata “da parte di fuori legge o di stranieri nemici, spesso appartenenti a razze non ariane, che non soltanto disonorano le nostre donne, ma compromettono la sanità della razza”. Ancora una volta il corpo e la dignità della donna non avevano alcun valore rispetto alle priorità razziali: il problema non era la violenza sessuale, ma la non arianità o la non ‘fascistità’ dello stupratore.
D’altronde lo stupro nel codice penale fascista era annoverato fra i “delitti contro la moralità pubblica e il buon costume”, ed era considerato un reato estinguibile mediante ‘matrimonio riparatore’ anche nel caso in cui la donna violentata fosse minorenne. Tale sarebbe rimasto fino alle nuove Norme contro la violenza sessuale del 1996, che lo riconobbero finalmente come crimine contro la persona.
Di recente il Parlamento italiano mediante le Misure urgenti in materia di sicurezza pubblica e di contrasto alla violenza sessuale, nonchè in tema di atti persecutori (D. L. 23.2.2009, n. 11) – presentate come “un sistema di norme finalizzate [...] ad una più efficace disciplina dell’espulsione e del respingimento degli immigrati irregolari, nonché ad un più articolato controllo del territorio” e mediaticamente definite “decreto antistupri” – ha riproposto lo stigma straniero=stupratore come ulteriore pretesto per riattivare i dispositivi discriminatori in nome della ‘razza’ e dissimulare ciò che le donne ben sanno e le statistiche confermano – cioè che le violenze sessuali trovano nella famiglia il luogo privilegiato.
L’accresciuta presenza di donne italiane in colonia implicò la costruzione di un cordone sanitario che, oltre a garantirle dal contagio di malattie sessuali contratte dai mariti – spesso sposati per procura – cui si ricongiungevano, assicurasse l’assoluta mancanza di contatti fra queste e gli uomini africani. La possibilità di relazioni sessuali delle italiane con i “sudditi”, vera e propria sfida alle gerarchie di razza e genere, era temuta ancor di più in funzione della
divisione sessuale del lavoro riproduttivo secondo la quale la donna, in quanto portatrice del patrimonio biologico, avrebbe avuto maggiore responsabilità nella difesa della razza rispetto all’uomo, considerato portatore del carattere morale.
Dal punto di vista giuridico, per un’italiana generare un figlio con un “suddito” avrebbe significato generare un figlio anch’esso “suddito” – oltre che rischiare di diventare a sua volta “suddita” per legge. Già il Codice Rocco aveva sancito questa asimmetria, punendo in maniera diversa quando si trattava di un matrimonio tra una donna bianca e un uomo nero.
Per Mussolini, ogni residuo di autonomia femminile doveva venire definitivamente debellato: a partire dal 1933, con l’istituzione della “Giornata della madre e del fanciullo”, aveva cercato di convincere le donne dell’importanza di questo compito e delle gratificazioni che ne derivavano; con l’impero tale processo raggiunse il suo apice e da una strategia premiale si passò alla feroce colpevolizzazione delle donne che disertavano il loro compito essenziale.
Nicola Pende – il quale, oltre che sottoscrittore del Manifesto del Razzismo Italiano, era anche il medico endocrinologo creatore dell’Istituto Biotipologico Ortogenetico nonché l’ideatore del “libretto individuale biotipologico sanitario” finalizzato all’ ortogenesi della stirpe– attaccò frontalmente la “disposizione anticoncezionale nella donna adulta, moderna”. Della “donna moderna”, soprattutto se urbanizzata, Pende enumerava i due “tipi anormali”: “La donna agiata ad abitudini edonistiche anticasalinghe e la donna povera lavoratrice delle officine, dei negozi e degli uffici, che limitano volontariamente le proprie abitudini materne”. E richiamava le politiche di ‘mescolanza’ tra donne e uomini italiani miranti a rafforzare la ‘razza’:
La eugenetica matrimoniale della razza deve anche contemplare la grande utilità, stabilità, della genetica umana, di favorire i matrimoni fra soggetti di stirpi etniche diverse, ma entro i confini d’Italia e non fuori d’Italia. L’incrocio fra stirpi italiche diverse, ma tutte egualmente ricche di valori somatici e spirituali e d’antichissima nobiltà di sangue, può favorire l’emergenza di figli di qualità superiore, ed anche geniali. E occorre in questo continuare l’opera di Roma ed amalgamare, anche col metodo delle migrazioni interne, le varie stirpi italiche. […] Italici con italici, deve essere il motto eugenico nostro dal lato della politica matrimoniale […]. [Nicola Pende, “La terra, la donna e la razza”, in: Gerarchia, ottobre 1938]
Alla donna venne attribuito il ruolo eugenetico di migliorare – quindi non solo di conservare – il patrimonio biologico della ‘razza’:
È la donna geneticamente sana che spesso compensa con la sua forza vitale e la sua normale eredità i difetti ereditari od acquisiti del marito, che sarà per l’Italia uno dei pilastri più fondamentali alla bonifica della razza.
Per quanto gli effetti reali delle politiche nataliste del regime siano stati assai discutibili, di fronte a queste nuove responsabilità per la difesa della ‘razza’, la sessualità femminile divenne sempre più l’assillo del controllo totalitario.
Dal 1930-31 il Codice Rocco aveva sancito per legge il controllo della sessualità femminile, definendo l’uso di anticoncezionali e l’interruzione di gravidanza come “reati contro l’integrità e la sanità della stirpe” (artt. 545-553).
Intanto il Vaticano, con l’enciclica Casti connubi (1930), si era scagliato contro le pratiche di controllo delle nascite.
Nonostante nella realtà gli effetti degli aborti clandestini fossero spesso invalidanti, quando non mortali, poco importava della salute della donna quanto, invece, dei suoi effetti sulla società e sulla ‘razza’.
Addirittura si arrivava al paradosso per cui la donna che, in conseguenza della pratica abortiva, era diventata “impotente a procreare”, rischiava di essere considerata doppiamente colpevole di “reati contro l’integrità della stirpe”!
Perduto il dominio sull’impero e su gran parte del territorio nazionale, e ormai ridotto a governare uno stato fantoccio – la Repubblica Sociale Italiana – nel novembre del 1944 il fascismo ebbe un ultimo, paradossale, conato razzista.
Una circolare riservata e diretta a questori, podestà e commissari prefettizi dichiarava che “in forza di una legge suprema di difesa dell’onore e della razza” l’aborto era possibile nei casi in cui una donna fosse stata violentata “da parte di fuori legge o di stranieri nemici, spesso appartenenti a razze non ariane, che non soltanto disonorano le nostre donne, ma compromettono la sanità della razza”. Ancora una volta il corpo e la dignità della donna non avevano alcun valore rispetto alle priorità razziali: il problema non era la violenza sessuale, ma la non arianità o la non ‘fascistità’ dello stupratore.
D’altronde lo stupro nel codice penale fascista era annoverato fra i “delitti contro la moralità pubblica e il buon costume”, ed era considerato un reato estinguibile mediante ‘matrimonio riparatore’ anche nel caso in cui la donna violentata fosse minorenne. Tale sarebbe rimasto fino alle nuove Norme contro la violenza sessuale del 1996, che lo riconobbero finalmente come crimine contro la persona.
Di recente il Parlamento italiano mediante le Misure urgenti in materia di sicurezza pubblica e di contrasto alla violenza sessuale, nonchè in tema di atti persecutori (D. L. 23.2.2009, n. 11) – presentate come “un sistema di norme finalizzate [...] ad una più efficace disciplina dell’espulsione e del respingimento degli immigrati irregolari, nonché ad un più articolato controllo del territorio” e mediaticamente definite “decreto antistupri” – ha riproposto lo stigma straniero=stupratore come ulteriore pretesto per riattivare i dispositivi discriminatori in nome della ‘razza’ e dissimulare ciò che le donne ben sanno e le statistiche confermano – cioè che le violenze sessuali trovano nella famiglia il luogo privilegiato.
Scuola di razza
di Gianluca Gabrielli
Gli anni del fascismo e quelli delle classi ponte1Razzismo e società italiana
È opinione diffusa, e prevalente nel circuito di informazione giornalistica e televisiva odierna, che il razzismo in Italia sia un elemento sostanzialmente estraneo all’identità nazionale. Gli opinionisti che si spingono a proiettare lo sguardo indietro nel tempo concedono al massimo il riconoscimento dell’aberrazione delle leggi del 1938, salvo addebitarne la responsabilità non tanto al fascismo quanto ad una specie di imposizione dell’alleato nazista; così facendo attribuiscono implicitamente al razzismo di Stato la natura di parentesi che, essendo il risultato di una forzatura esterna, una volta dissolto l’agente responsabile non poteva altro che chiudersi nel 1945 senza strascichi.
Questa visione comoda e autoassolutoria pone le sue fondamenta su due elementi portanti del passato nazionale, uno sociopolitico e uno storiografico. Quello sociopolitico è la mancatadefascistizzazione della società italiana seguita alla liberazione. Più che in altre nazioni europee igoverni usciti dalla guerra hanno rapidamente restaurato il senso di normalità della vita nazionale rinunciando all’epurazione di grandi e piccoli responsabili del regime e delle sue nefandezze e quindi stendendo un velo di innocenza o di limitata gravità sulle decisioni che avevano aperto ferite che ancora bruciavano tragicamente2. L’elemento storiografico è costituito dall’interpretazione di quegli anni emersa dalla scuola moderata che si raccoglieva attorno a Renzo De Felice e che a metà degli anni Settanta, a partire dall’Intervista sul fascismo del 1976, è divenuta progressivamente egemone nella trasmissione massmediatica del passato fascista, dichiarato «immune dal cono d’ombra dell’Olocausto»3.
Contrapposta a questa interpretazione consolatoria del razzismo fascista se ne è però sviluppata un’altra che ha mostrato la presenza nella società dell’epoca di elementi sia antiebraici che discriminatori nei confronti degli africani. Per questi storici tali elementi radicati nella società italiana furono riattivati dalla scelta del regime di varare una legislazione razzista e antisemita tra il 1937 e il 1938; tale scelta risulta coerente con la natura del regime e dell’ideologia fascista, gerarchizzante e bisognoso di creare nemici che permettessero di agire nel senso dell’omogeneizzazione del proprio corpo sociale. Questa tendenza storiografica quindi, da una parte
attribuisce al fascismo una sostanziale natura gerarchizzante predisposta a sviluppare classificazioni, individuare nemici e produrre esclusioni rigide anche a base culturale o biologica;
dall’altra ritiene che la società italiana del XX secolo fosse carica di elementi di pregiudizio radicati nel senso comune e nel mondo culturale che furono il materiale su cui Mussolini poté contare nel momento del varo delle leggi razziste. Inoltre da questa interpretazione consegue logicamente che,
con la caduta del fascismo, nella società italiana rimasero in circolazione sia gli effetti di cinque/sette anni di razzismo istituzionale, sia tutto il substrato di pregiudizio che aveva preceduto
le leggi e che a quel punto, necessariamente, non poteva che ritornare nella clandestinità culturale e sopravvivere sottotraccia.
con la caduta del fascismo, nella società italiana rimasero in circolazione sia gli effetti di cinque/sette anni di razzismo istituzionale, sia tutto il substrato di pregiudizio che aveva preceduto
le leggi e che a quel punto, necessariamente, non poteva che ritornare nella clandestinità culturale e sopravvivere sottotraccia.
In questa contrapposizione di paradigmi e nell’egemonia del primo sta, credo, anche la ragione per
cui negli ultimi vent’anni è stato costantemente minimizzato il significato di ciò che lentamente si è
verificato nella nostra società: episodi di razzismo diffuso, invettive violente contro nomadi e contro stranieri, intolleranze contro i costumi religiosi e culturali non cattolici, omofobia. Tutto ciò
culmina, quest’anno, con una azione di legge che ci riporta compiutamente in una nuova età di razzismo di Stato, cioè razzismo decretato per legge contro persone – gli stranieri privi di permesso di soggiorno, i cosiddetti «clandestini» – che sono sottoposte a procedimenti penali e restrizione di diritti per la loro condizione e non per atti commessi4.
Cos’è il razzismocui negli ultimi vent’anni è stato costantemente minimizzato il significato di ciò che lentamente si è
verificato nella nostra società: episodi di razzismo diffuso, invettive violente contro nomadi e contro stranieri, intolleranze contro i costumi religiosi e culturali non cattolici, omofobia. Tutto ciò
culmina, quest’anno, con una azione di legge che ci riporta compiutamente in una nuova età di razzismo di Stato, cioè razzismo decretato per legge contro persone – gli stranieri privi di permesso di soggiorno, i cosiddetti «clandestini» – che sono sottoposte a procedimenti penali e restrizione di diritti per la loro condizione e non per atti commessi4.
Spesso alla base del misconoscimento della valenza razzista in episodi di discriminazione e violenza sta un problema di definizione. Perché consideriamo razzista la schedatura dei nomadi o degli stranieri presenti in Italia attraverso la rilevazione delle impronte digitali? Perché l’onorevole Brutti (che la propose nel 2000 per gli immigrati) e l’onorevole Maroni (che l’ha realizzata nel 2008 per i nomadi) non la considerano tale?5 In questo saggio la definizione di razzismo, che ho utilizzato per muovermi con uguale metodo tra i documenti degli anni Trenta del Novecento e tra quelli di oggi, è la seguente: è razzista l’ideologia che opera 1) la traduzione in chiave naturalistica di caratteristiche determinate storicamente, oppure 2) l’attribuzione di valore a diversità naturali, cioè la gerarchizzazione operata sulla base di tali diversità; tali operazioni sono finalizzate entrambe a legittimare forme di esclusione e/o di subordinazione del gruppo umano così “costruito”. Risultato paradigmatico della prima operazione logica è l’antisemitismo che inventa la “razza ebraica” sulla base di una determinazione storica religiosa; la seconda operazione porta invece al razzismo cosiddetto coloniale, che attribuisce, ad esempio, al colore della pelle un valore di superiorità (bianco) o inferiorità (nero) che tali caratteristica in sé non ha6.
Ovviamente il razzismo è una pratica mutagena, che cambia continuamente forma adattandosi al contesto in cui si sviluppa. Cambia talmente da poter rinunciare all’uso del termine che le dà il nome – razza, ormai impresentabile dopo gli avvenimenti del Novecento – senza per questo perdere la capacità di operare secondo le logiche descritte qui sopra. Così oggi nessuno (quasi) dei promotori della rilevazione delle impronte digitali agli “zingari” userebbe per la comunità nomade il nome “razza”; tuttavia la costruzione “etnica” della comunità zingara avviene come se il nomadismo fosse una caratteristica naturale e non maturata storicamente, e la sua schedatura attraverso strumenti di polizia criminale come la rilevazione delle impronte, rientrano evidentemente nel campo analitico delineato con la nostra definizione.Così, servendomi di questi strumenti metodologici che ritengo funzionali, ho provato ad indagare un settore particolarmente importante nella società contemporanea, luogo di educazione per tutti i
cittadini e di trasmissione di elementi culturali e di civilizzazione: la scuola italiana. Dapprima ho esaminato gli anni del regime fascista, quelli del primo razzismo di Stato; poi ho provato ad usare la
stessa lente ponendomi di fronte alla vorticosa serie di novità che nell’ultimo anno hanno minato l’idea che la scuola sia un diritto inalienabile della persona, ponendo le premesse per introdurre restrizioni, ghettizzazioni, discriminazioni, paure: la scuola italiana di oggi, del secondo razzismo di Stato. Con la convinzione che la storia del passato e la testimonianza, attiva ed impegnata, del presente possono trarre reciproco vantaggio.
La scuola del regime
La persecuzione razzista del fascismo
Nei primi anni del regime a scuola il tema della razza non fu trattato in modo differente rispetto a come veniva tratteggiato nella scuola prefascista. La suddivisione delle popolazioni della terra in razze gerarchizzate tra loro in base alla “civiltà” e la collocazione del “bianco” al di sopra delle altre razze era un elemento scontato per l’antropologia del tempo, un luogo comune culturale7. Era logico quindi che emergesse qua e là, soprattutto nei passi dedicati all’argomento sulle pagine di geografia dei testi per le scuole elementari, medie e superiori. Solitamente, nella scuola elementare, il compito dell’alfabetizzazione era svolto con evidenza iconografica da una tavola composta dai disegni o dalle foto antropologiche delle tre (o quattro o cinque, a seconda della suddivisione) razze principali. Nella tavola erano illustrati i rapporti: il bianco al centro oppure in alto, accanto ad elementi del progresso scientifico o di “civilizzazione culturale” come i vestiti; invece gli altri soggetti, più o meno accompagnati da elementi svalorizzanti, erano collocati in posizione subordinata. Informazioni sulla collocazione geografica completavano le brevi trattazioni.
Di tanto in tanto tra i testi affioravano anche elementi di pregiudizio antigiudaico, ma la loro presenza era sporadica e legata alla tradizione cristiana e alla sua forte pervasività nella cultura nazionale rafforzata dalla riforma Gentile che aveva posto l’insegnamento della dottrina cristiana cattolica «a fondamento e coronamento della istruzione elementare»8.
Il punto di svolta rispetto al razzismo va collocato in corrispondenza dell’invasione dell’Etiopia. In quegli anni infatti l’importanza del fattore razziale nella definizione dell’identità fascista e italiana crebbe tanto da divenire un elemento strategico nella politica identitaria del regime. In un brevissimo lasso di tempo (1935-1937) si assistette all’introduzione di una legislazione gerarchizzante e separatista in colonia e al varo di una campagna di stampa antisemita nel territorio nazionale. Progressivamente, e con vincolo di legge dal 1938, la scuola fu «bonificata» dalla presenza fisica e culturale degli ebrei mentre i principi del razzismo divenivano leggi dello Stato ed entravano come temi irrinunciabili nella preparazione dei curricoli e dei libri di testo.
Gabriele Turi faceva notare già anni fa che nell’autunno del 1938 il fascismo intervenne sulla scuola, sull’università e sulla cultura imponendo normative più razziste di quelle coeve in vigore nella Germania nazista9. Possiamo inoltre aggiungere che la macchina burocratica, in altri momenti così difficile da avviare in Italia, in questo caso diede prova di un’efficienza superiore alla media, sollecitata da un ministro che sicuramente aveva profuso il massimo impegno per mostrarsi zelante in questa materia. Giuseppe Bottai, infatti, ministro in carica dell’Educazione Nazionale, era stato il più solerte tra gli uomini di regime a prendere provvedimenti antiebraici. Nella scuola fascista le azioni di censimento e di discriminazione iniziarono ancor prima che l’antisemitismo fosse divenuto legge di Stato o direttiva ufficiale del governo.
Nell’università fin dal 3 agosto fu vietata la partecipazione di docenti universitari ebrei a convegni all’estero e dal 6 fu vietata l’iscrizione di studenti ebrei stranieri. Nella scuola statale il 6 fu inviata la circolare che segnalava l’uscita della rivista «La difesa della razza» e ne ordinava la lettura e il commento, mentre il 9 si vietava il conferimento di supplenze agli insegnanti ebrei e veniva disposto il censimento di tutto il personale dipendente per appurare l’appartenenza o meno alla razza ebraica. Il 12 era la volta dei libri di testo, con la proibizione di quelli di autori ebrei e il 18 toccava agli studenti ebrei stranieri essere esclusi anche dalle scuole elementari e medie. Tutte queste misure, prese vorticosamente in agosto, trovarono una prima sistemazione e un ampliamento significativo con il regio decreto legge del 5 settembre Provvedimenti per la difesa della razza nella scuola fascista in base al quale fu vietato agli studenti ebrei di iscriversi a scuola e università e ai docenti si esercitare nelle scuole statali, disponendo la sospensione di quelli in servizio a partire dal 16 ottobre. La sospensione era estesa anche a presidi e direttori didattici nonché al personale di vigilanza. A questo punto mancavano solo i dettagli e le rifiniture, ma l’eliminazione della scuola della presenza ebraica era stata decretata.
Successivamente con circolare fu specificato che gli insegnanti sospesi, per evitare che prendessero
inizialmente servizio nelle classi e che quindi si creasse l’effetto emotivo dell’interruzione del rapporto con gli alunni dopo le prime due settimane di scuola (che iniziava in ottobre) dovevano essere collocati al di fuori della didattica in attesa che maturassero i tempi della sospensione dal servizio.
Così la maggior parte degli studenti e dei professori ebrei non iniziò neppure la scuola che fin dall’apertura dell’anno scolastico si ritrovò privata dalle persone definite ebree in base alla normativa in elaborazione.
Nell’ottobre del 1938, al Gran Consiglio del Fascismo, Bottai stesso si oppose in maniera intransigente a qualsiasi attenuazione dei provvedimenti e la campagna antiebraica nella scuola fu portata avanti in maniera inflessibile anche negli anni successivi10. Il Rdl 1779 del 15 novembre infatti oltre a raccogliere le norme sulla scuola in un unico testo completò il quadro decretando la dispensa dal servizio (il licenziamento) per tutto il personale già sospeso: al termine saranno cacciati circa 279 tra presidi e professori di scuola media11, un numero imprecisato di maestre e maestri elementari e alcune migliaia di studenti. La scuola italiana nel giro di poco più di un’estate era stata “purificata” ed era diventata una scuola “di razza”.
L’educazione razzista del fascismo
Lo zelo di Bottai fu efficace anche nell’intervenire sui contenuti della scuola, uniformandoli ai nuovi principi razzisti. Qui le strade, perseguite parallelamente fin da agosto del 1938, furono due:
«bonificare» il sapere scolastico del tempo da quelle che venivano definite «influenze semite» e sostenere innovazioni nei contenuti scolastici in linea con le nuove idealità razziste.
«Bonifica». Il 12 agosto fu inviata ai provveditori la circolare che aveva come oggetto il «divieto di adozione di libri di testo di autori ebrei» e dettava le prime indicazioni ai provveditori e ai presidi per procedere alla immediata sostituzione dei libri proibiti adottati nello scorso mese di maggio.
Questo ambito di intervento prettamente censorio fu sviluppato nel tempo nell’ambito delle pubblicazioni scolastiche intrecciandosi alla più generale campagna, già avviata dallo stesso Mussolini nel mese di aprile dello stesso anno, che intendeva eliminare dalla circolazione «gli scrittori ebrei, ebraizzanti, o comunque di tendenze decadenti»12. In particolare nell’ambito dei libri scolastici la censura passò dalla proibizione dei testi di autori ebrei a interventi di revisione più
minuziosi poiché, come precisato in una successiva circolare di luglio 1939,
dovrà curarsi l’eliminazione non solo dei brani di scrittori o poeti di razza ebraica ma anche di tutte le citazioni ed in genere i riferimenti al pensiero di autori ebrei13
Nuovi contenuti razzisti. Il 6 agosto, sempre 1938, fu inviata ai Provveditori un’altra circolare dedicata alla diffusione della neonata rivista «La difesa dalla razza» nelle scuole che
dovrà […] essere conosciuta, letta, divulgata e commentata da tutti i presidi, direttori, ispettori e insegnanti della scuola media ed elementare, sia dei grandi che dei piccoli centri; ogni biblioteca scolastica dovrà esserne provvista e tenerla a disposizione del corpo insegnante, il quale ne assimilerà e propagherà l’altro spirito informatore
Le indicazioni del Ministro però andavano oltre sottolineando la necessità di porre i contenuti razzisti al centro dell’insegnamento e delineando un primo improvvisato “curricolo razzista” per i diversi gradi di scuola:
Nella scuola di primo grado, coi mezzi acconci alla mentalità dell’infanzia, si creerà il clima adatto alla formazione di una prima, embrionale coscienza razzista, mentre nella scuola media il più elevato sviluppo mentale degli adolescenti, già a contatto con la tradizione umanistica attraverso lo studio delle lingue classiche, della storia e della letteratura, consentirà di fissare i capisaldi della dottrina razzista, i suoi fini e i suoi limiti. La propagazione della dottrina continuerà, infine, nella scuola superiore dove la gioventù studiosa, col sussidio delle cognizioni umanistiche e scientifiche già acquisite, potrà approfondirla e prepararsi ad esserne, a sua volta, divulgatrice e animatrice.14
Di questo secondo filone di interventi tesi a sollecitare e prescrivere un curricolo razzista ne analizziamo qui solamente due: il Secondo libro del fascista e il volumetto Per la difesa della razza dell’Istituto tecnico Riccati di Treviso .
Il Secondo libro del fascista15 è una sorta di manuale scolastico specifico sul razzismo per gli alunni delle scuole medie, pubblicato per la prima volta nel 1939, ad un anno di distanza il Primo libro del fascista dedicato a Mussolini, alla rivoluzione fascista e alle organizzazioni di regime. Il ministero fece ingente opera di propaganda attraverso ripetute circolari affinché si arrivasse ad una «diffusione possibilmente totalitaria dei due volumi»16. Il contenuto procede per brevi capitoli
articolati in frasi semplici e assertive: inizia dalla classificazione della specie umana in razze, chiarisce l’appartenenza della stirpe italiana alla razza ariana, la superiorità dell’arianesimo sulle altre razze, la necessità di difenderne purezza e supremazia e l’identità tra nazione e razza. Poi passa ad un florilegio di citazioni del duce su «razza» e «stirpe», attestando quanto la retorica e il linguaggio fascista fossero intrisi del lessico razzista fin dagli anni Venti, anche se l’intento propagandistico di retrodatare tout court la scelta del razzismo di stato di quindici anni non è certo
condivisibile a livello storiografico. A questo punto il testo si diffonde in un lungo elenco delle opere del fascismo «per la razza», poi affronta il tema degli «ebrei», quello del «razzismo coloniale», elenca le principali leggi razziste e conclude con un paragrafo riassuntivo intitolato Che cosa devo sapere sulla razza e articolato per brevi domande e risposte secondo lo stile dei testi di catechismo di fine Ottocento. Vediamo un breve saggio di quest’ultima parte:
D.[domanda] A quale razza appartieni? R.[risposta] Appartengo alla razza ariana. / D. Perché dici di essere di razza ariana? R. Perché la razza italiana è ariana. / D. Qual è la missione della razza ariana? R. La razza ariana ha la missione di civilizzare il mondo, e di farne incessantemente progredire la civiltà. […] D. Perché il Regime Fascista ha preso i provvedimenti riguardanti gli ebrei? R. I provvedimenti razziali del Regime sono stati presi per tutelare la purezza del sangue italiano e dello spirito italiano e per difendere lo stato contro le congiure dell’ebraismo internazionale. […] D. Qual è il primo dovere dell’Italiano che vive sui territori dell’Impero? R. Il primo dovere dell’Italiano che vive sui territori dell’Impero è quello di mantenere il prestigio di razza, mostrandone costantemente la superiorità agli indigeni17.
L’aspetto che mi pare più importante da mettere in evidenza riguarda l’elenco di iniziative prese dal regime per la razza. In questo caso il fascismo non mostra la dimensione persecutoria del suo razzismo, quella rivolta contro ebrei e africani, bensì quella “positiva”, rivolta a sostenere la “razza eletta”, a rafforzarla, ad inquadrare i suoi soggetti più a rischio, a mantenerla sana. Leggiamo in sintesi l’elenco che compare in questo libretto: educazione al costume guerriero e virile; sostegno alla maternità e all’infanzia, sostegno alla politica demografica attraverso l’incoraggiamento dei matrimoni; organizzazione delle bonifiche e del «ritorno alla terra», battaglia del grano ecc.; lotta contro le malattie sociali come malaria, tubercolosi, lue; assistenza e previdenza sociale; fondazione
del dopolavoro; incremento all’educazione fisica; istituzione delle organizzazioni giovanili; …
Vediamo subito che all’interno del «sostegno alla razza italiana» rientra più o meno tutta quanta la
politica sociale del fascismo attuata dalla presa del potere per l’organizzazione e il controllo delle masse: il disciplinamento del tempo libero, l’educazione nazionale, l’educazione bellicista, fino a comprendere tutta a medicina sociale e le iniziative di profilassi sanitaria. Noi sappiamo bene che, ad esempio per quanto riguarda l’associazionismo, le organizzazioni del regime (ONB, GIL, Dopolavoro) erano rimaste le uniche a poter essere operative e che le altre organizzazioni, da quelle di diverso segno politico a quelle religiosi come lo scoutismo, furono perseguitate e vietate: non dobbiamo mai dimenticarlo di fronte alla “messa in scena del regime”. Inoltre non bisogna smettere di ricordare, a generazioni sempre più affaticate dai revisionismi, che la ginnastica per ottenere un soldato obbediente da un bambino disciplinato è qualcosa di radicalmente diverso dalla riscoperta del corpo e del gioco in libera relazione con i propri coetanei. Al di là di queste forse scontate premesse però, quello che sta dietro ed emerge da questa lista è l’esistenza di una politica di difesa e di sostegno alla stirpe nazionale che il fascismo faceva da tempo… E che la propaganda di questa azione - che oggi possiamo chiamare “bio-politica” - definiva il popolo italiano destinatario delle profilassi con i termini di «stirpe» e «razza» in maniera spesso indifferente18. Fu poi nel 1936-37 che il regime, a seguito della conquista dell’Etiopia, varò la prima campagna di propaganda e la prima legge “razzista” nei confronti degli africani. A quel punto la scelta del razzismo di Stato divenne operativa anche nel territorio del regno contro gli ebrei in un contesto in cui era possibile riconnettere tutti questi elementi maturati nel tempo all’interno di una visione organica del razzismo fascista.
La riorganizzazione di tutta la politica educativa, assistenziale, medica e sociale del fascismo all’interno della teoria della razza non era difficile né incoerente. Inoltre questa politica, considerata in sé e depurata dagli aspetti persecutori del razzismo, poteva apparire meritoria o perlomeno apprezzabile agli occhi di chi, ad esempio, in quegli anni andava a scuola e non aveva un padre comunista o socialista a casa che gli suggeriva uno sguardo critico. Intendo dire che il regime
quando varò le leggi razziali, riuscì a concentrare il “lavoro sporco”, la cacciata dei professori e degli alunni ebrei, durante l’estate, coinvolgendo direttamente poche persone: erano sufficienti i presidi e i segretari, più legati gerarchicamente alle catene di comando politico. Quando la scuola riaprì, il curricolo razzista poté dispiegarsi in gran parte sugli aspetti “positivi”, di sostegno e esaltazione della razza bianca, che in tutta evidenza risultano umanamente meno critici per le coscienze e costituiscono facili corroboranti dell’immagine di sé dell’italiano. Così diviene forse più pensabile una parte della risposta alla domanda che continuiamo a farci dal dopoguerra: come fu possibile? Fu possibile anche per questa articolazione dei due versanti – persecutorio verso gli ebrei e gli africani, di tutela verso gli «ariani» – della politica razzista nella scuola.
Questo ragionamento mi pare riceva conferma anche dagli interventi inclusi nel volumetto Per ladifesa della razza19, pubblicato nel 1940 dall’Istituto tecnico Riccati di Treviso. Si tratta di un opuscolo che raccoglie gli intendimenti didattici sul «problema razziale» di venti docenti dell’istituto espressi tra novembre e dicembre del 1938 in seguito ad una richiesta del Preside che li sollecitava citando la circolare del 6 agosto sulla rivista «La Difesa della Razza». Sono passati solo
due mesi dall’inizio della scuola e dalla cacciata di professori e studenti ebrei dopo mesi di campagna di stampa martellante. Leggendo i testi ci colpisce immediatamente la durezza dell’antisemita convinto, l’insegnante Bazza di Materie letterarie che promette: «Parlerò pure del
massimo dei pericoli per la nostra razza: gli Ebrei e perché oggi si cerchi di segregarli da noi»20.
Ma esso è l’unico che citi esplicitamente gli ebrei. Anche alla maggior parte degli altri insegnanti lo zelo certo non manca, ma è indirizzato in modo diverso: sembra che nessuno senta il bisogno di citare gli ebrei, l’espulsione è già stata attuata, non è compito loro; molti insegnanti avranno pensato: “meglio così, posso non sporcarmi le mani”. Quello che invece il ministero chiede a tutti i docenti è di articolare l’impianto generale del razzismo, spiegare la coerenza del sistema di tutele e discriminazioni, fornire elementi di sostegno all’idea che la razza italiana o ariana è superiore, che la superiorità ha radici nella storia, che il prestigio di razza va difeso e sostenuto anche dal singolo individuo inquadrato nell’organicità del fascismo. Perciò ognuno dà il suo contributo a partire alla sua materia.
Così non mancano le lezioni specifiche di teoria antropologico-biologica della razza come quelle proposte dall’insegnante di scienze (dalla classificazione dei grandi gruppi razziali alle leggi fasciste), spiegazioni normative come quelle proposte dal docente di diritto («le norme per la difesa
della razza nel nuovo codice civile») o esercitazioni pratiche come la fisiognomica descrittiva dei caratteri fisici della razza italiana proposta dell’insegnante di disegno. Ma la costellazione del razzismo fascista è più complessa. Altre materie molto tecniche trovano l’occasione per gettare un ponte tra politica razzista e politica economica del fascismo: l’imprenditoria autarchica per l’insegnante di ragioneria e tecniche commerciali, le case popolari per l’insegnante di costruzioni, la bonifica e la battaglia del grano per l’insegnante di agraria. I docenti di materie letterarie ripercorrono la storia e la letteratura nazionali esaltando le radici romane (otto interventi), la citazione dei geni italici (cinque, compresi i due docenti di matematica), del cristianesimo (quattro, compreso ovviamente l’insegnante di religione), del Risorgimento (due). Nell’ambito delle loro discipline la storia è individuata come la materia più duttile allo scopo (otto) seguita da geografia (sei) e lingua italiana (quattro). Addirittura c’è lo spazio per avere cautele nei confronti della tenera età degli allievi, per cui nei corsi inferiori si preferisce soprassedere al discorso sugli incroci (tre) poiché lo si ritiene non ancora consono alla loro psicologia. Per essi invece viene sollecitata l’educazione fisica (esaltata, si badi, non dagli insegnanti della GIL, che non partecipano al libretto, ma dai docenti di materie letterarie) come dovere al fine di dare corpo alla superiorità della razza italiana.
Le colonie e le popolazioni africane sono citate da cinque insegnanti e si percepisce che l’argomento richiama il grande tabù che si sente scorrere in alcuni di questi testi: quello dell’«incrocio», degli «ibridismi», le «contaminazioni», gli «imbastardimenti» e la paura di perdita della purezza razziale.
La maggior parte degli insegnanti non preannuncia lezioni specifiche, assicura invece che ne parlerà «appena se ne presti l’occasione, o provocando io stesso questa occasione»21 o «il sottoscritto […] prenderà lo spunto da qualche lezione di italiano e più ancora di storia»22 o ancora «ho avuto cura sin dal principio dell’anno di cogliere e di sviluppare quegli elementi e quegli spunti che dall’insegnamento delle varie materie mi sono stati offerti man mano»23. Alcuni si rendono conto che, in fondo, il razzismo lo insegnano da tempo, come l’insegnante di agraria che si accorge della continuità e coerenza di tante misure prese dal regime negli anni precedenti: «In armonia alle direttive del Regime ho da più anni illustrato ed illustro le leggi e i provvedimenti che il Governo fascista emana per formare la coscienza di razza e per la difesa della razza»24.
In definitiva quindi nella scuola fascista “arianizzata” del 1938 c’è spazio per essere razzisti secondo la propria disposizione e competenza, si può essere attivi propagandisti antisemiti ma anche mentori della grandezza di Roma o dell’importanza dell’educazione fisica. Tutto rientra nella costellazione. Se allora poteva parere meno compromissorio parlare di “Cesare” anziché di “perfidi ebrei”, oggi non possiamo ricostruire quel contesto senza riconoscere la complementarità di contenuti di una campagna razzista che nella scuola non trovò resistenze proprio perché ogni indole trovò il suo ruolo o il suo modo di girarsi dall’altra parte:
Vorrei ricordare l’amico fraterno Giorgio Foà. Condivisi con lui il banco del liceo classico “Romagnosi”, sezione B, negli anni scolastici 1936-37 e 1937-38. All’inizio dell’anno Giorgio non venne a scuola: le leggi razziali lo volevano escluso da quel liceo che fino ad allora aveva frequentato con buon profitto. Ci fu un sussulto nei nostri cuori? L’ignobile provvedimento ci apparve in tutta la sua gravità e in tutte le sue tremende implicazioni? Io credo di dover ammettere per amore di verità che indifferenza e apatia contraddistinsero il nostro comportamento di allora: né dalla bocca dei docenti un pur minimo accenno all’infame reiezione ebbe a sortire, segno evidente dello sfascio ideale e morale che la dittatura aveva provocato in tante coscienze.25
Il secondo razzismo di Stato
Il razzismo non scompare per decreto. Anche il razzismo italiano degli anni Trenta non scomparve con l’abrogazione delle leggi razziste. Le profonde radici che affondavano nella società italiana sono sopravvissute alla caduta del regime e sottotraccia hanno continuato a produrre identità e dispositivi potenzialmente discriminatori. Ci siamo accorti di ciò proprio in occasione del riemergere di questi dispositivi all’inizio degli anni Novanta quando l’arrivo di persone migranti delle popolazioni che un tempo erano sottomesse alle nazioni imperialiste ha fatto riemergere il vecchio razzismo coniugato secondo il nuovo senso comune, il nuovo lessico (non più «razza» ma «etnia») e le nuove accezioni discriminatorie. Così quell’enorme bacino sommerso di pregiudizi un tempo indirizzati contro i sudditi coloniali o gli ebrei viene rivolto ora contro i migranti, spesso con l’aggravante di politiche che negano loro i diritte e le elementari forme di accoglienza previste dalle normative umanitarie internazionali. Nel 1991 l’arrivo a Bari di 22.000 albanesi su una carretta del mare rappresentò l’inizio emblematico di una stagione che oggi è ancora in pieno sviluppo: essi furono concentrati nello stadio cittadino e immediatamente espulsi, con una risposta amministrativa che, criminalizzando i «clandestini», accettava in qualche misura i diffusi pregiudizi contro di loro e li alimentava a sua volta. Da lì ha preso avvio la lunga stagione dei Centri di permanenza temporanea, delle campagne leghiste e non solo contro i migranti, della demonizzazione dell’Islam.
Una stagione in cui – in risposta alla crescita di presenze della seconda generazione di migranti - i governanti, sia di destra che di sinistra, non allargano i canali per il riconoscimento della cittadinanza bensì progettano e realizzano restrizioni, come nella disciplina dei matrimoni misti che in questi ultimi anni è stata attaccata da entrambi gli schieramenti.
Non sappiamo ancora come si andrà sviluppando nei diversi settori della società italiana questo nuovo razzismo di Stato – definibile in tal modo poiché la discriminazione è supportata anche da leggi dello Stato. Nell’ultimo anno però, riguardo alla scuola, abbiamo assistito a progetti e realizzazioni indirizzati direttamente a colpire il diritto all’istruzione e le modalità di frequenza scolastica di specifiche categorie di giovani: si tratta dei giovani migranti. A partire da questi interventi governativi proverò a fare un esercizio di storia del presente, cioè a proporre dall’analisi di questi atti un’interpretazione di quale scuola sia progettata per i migranti, quale immagine di essi alberghi nella mente dei legislatori e infine come si vada definendo il confine tra chi – per ora – può rimanere - pur in modalità subordinate - dentro il circuito dell’istruzione pubblica e chi invece è destinato ad esserne espulso.
Le” classi-ghetto”
In ottobre del 2008 la maggioranza di governo ha stabilito, nell’ambito della discussione sulle misure di riforma della scuola, l’istituzione delle cosiddette «classi ponte» che meglio sarebbe definire “classi ghetto per stranieri”. Si tratta di una mozione26 votata dalla Camera dei deputati che impegna la maggioranza a preparare una legge per sancire il trattamento separato degli alunni e alunne stranieri nella scuola italiana. Con la realizzazione di questa norma, infatti, tutti gli alunni e le alunne migranti che si iscriveranno per la prima volta nella scuola pubblica italiana dovranno sostenere un esame di lingua in ingresso; chi non supererà l’esame verrà separato fino a dicembre di ogni anno scolastico in classi separate definite «classi ponte» dove dovrà studiare l’italiano e un vero e proprio curricolo per migranti. Poi, a dicembre, un nuovo esame sancirà l’inclusione dello studente nelle classi normali oppure ne decreterà la separazione per tutto il resto dell’anno27.
Didatticamente si tratta di un’idea avulsa dalla letteratura specialistica sull’apprendimento delle lingue. È risaputo che per imparare una lingua ci si deve immergere in essa, non separarsene. Una delle pratiche più diffuse per far apprendere l’inglese ai ragazzi italiani è di organizzare soggiorni estivi in Inghilterra e i genitori stanno bene attenti che i ragazzi rimangano più tempo possibile a contatto con ragazzi del luogo. Allo stesso modo è assodato dell’esperienza che i bambini migranti apprendono la lingua italiana nel corso della vita scolastica in classe, soprattutto durante le attività organizzate per gruppi in cui è utile lavorare scambiandosi opinioni, e giocando durante gli importantissimi momenti di ricreazione. Inoltre gli specialisti spiegano che per insegnare bene una lingua occorre rispettare la “fase del silenzio” che inizialmente è caratteristica in ogni inserimento e
che ha una durata estremamente variabile.
L’idea che raggruppare in una classe i bambini e le bambine di svariate lingue madri e provenienze – separandoli dai coetanei italofoni e obbligandoli ad una produzione linguistica immediata – possa rivelarsi per essi un aiuto all’acquisizione della lingua italiana appare quindi del tutto infondata; i firmatari della mozione durante il dibattito parlamentare hanno parlato di «discriminazione transitoria positiva»28 a favore dei minori migranti, ma è evidente che si tratta di una definizione pretestuosa, un maldestro tentativo di capovolgere l’evidenza.
Una volta esclusa la finalità didattica non resta che riconoscere l’intento discriminatorio della mozione: dividere i bambini stranieri dai bambini italiani e imporgli un percorso di ingressoassimilazione sia linguistico che culturale, imponendogli una pubblica sanzione di diversità e riunendoli agli altri solo previo superamento dell’esame. Difficile sostenere che tale pratica non sia razzista.
Ma la cosa interessante, con il rischio di rimanere allibiti, è scavare all’interno di questa mozione per capire qualcosa di più di questo nuovo razzismo. Infatti i legislatori hanno formulato anche quello che viene definito il «curricolo formativo essenziale», pensato come programma di lavoro specifico per questi scolari stranieri aspiranti ad essere promossi a scolari della scuola italiana:
a) comprensione dei diritti e doveri (rispetto per gli altri, tolleranza, lealtà, rispetto della legge del paese accogliente); b) sostegno alla vita democratica; c) interdipendenza mondiale; d) rispetto di tradizioni territoriali e regionali del Paese accogliente, senza etnocentrismi; e) rispetto per la diversità morale e cultura religiosa del paese accogliente29
Come ogni discorso razzista coerente, anche questo curricolo definisce al medesimo tempo sé (l’italiano) e l’altro (il migrante) e ci fornisce la chiave per capire le ragioni che, al di là della lingua, a parere degli estensori del testo (e della maggioranza dei parlamentari italiani che l’hanno approvato) costituiscono l’impedimento all’ingresso di alunni stranieri nelle classi con alunni italiani. La lettura non è complicata e non è difficile d’altronde colmare i pochi dubbi interpretativi integrandoli con gli interventi che hanno accompagnato la discussione parlamentare della mozione.
Cominciamo dalla definizione di sé.
Secondo questa delibera (punto «e» del Curricolo formativo essenziale) gli italiani sono caratterizzati da una «diversità morale» che deve essere «rispettata» dallo straniero; è Luisa Capitanio Santolini [UDC], che comunque voterà contro la mozione, a sostenerlo:
Credo che la scuola abbia compiti […] che sono l'istruzione, l'educazione e l'insegnamento di quei valori che hanno fatto grande la nostra nazione.30
Questa diversa morale si collega con una «cultura religiosa» particolare – quella cristiana cattolica – che presumibilmente viene ritenuta il fondamento di tale diversità morale. Anche la cultura religiosa va rispettata e l’alunno straniero deve essere formato a tale rispetto, ce lo spiega Fabio Garagnani [Forza Italia]:
Proprio perché non mi voglio trovare - come mi trovo nella mia regione - a dover accettare che la benedizione ad una nuova scuola sia negata da una minoranza di genitori politicizzati in nome della parità culturale con le altre etnie, dico che questa mozione, in nome del rispetto per l'altro, ma anche della nostra tradizione culturale e religiosa, di questo senso di identità che caratterizza noi italiani e che dobbiamo insegnare agli immigrati, per rispetto loro e nostro, è meritevole di consenso (Applausi dei deputati dei gruppi Popolo della Libertà e Lega Nord Padania) e denota la vostra ipocrisia, il vostro totale venir meno di senso di appartenenza ad una collettività nazionale
Il rispetto dovuto alla religione cattolica non è inteso come generale, cioè non è valido per tutte le confessioni ma è specifico per il cristianesimo cattolico (probabilmente un po’ perché rappresenta la religione maggioritaria nel paese ospitante, un po’ per l’idea degli estensori che tale religione sia effettivamente superiore alle altre); esplicita in questa rivendicazione di superiorità confessionale e
del diritto a confessionalizzare la vita pubblica di tutti gli abitanti è Paola Goisis, illustratrice della mozione [Lega Nord]:
«Non si può immaginare che quando arriverà il Natale i nostri bambini italiani, veneti, lombardi, piemontesi non possano celebrare tale ricorrenza, altrimenti qualcuno si offende, che non possano nominare Gesù e venga sostituito il nome di Gesù con «virtù» nelle canzoncine di Natale. Noi queste cose non le tolleriamo più. Non permetteremo assolutamente che questo succeda (Applausi dei deputati del gruppo Lega Nord Padania)! Anzi, avanzeremo un'altra proposta: che a fianco della Costituzione venga regalata a tutti i bambini e a tutte le scuole italiane anche la Bibbia e magari il Vangelo, perché questa è la nostra cultura, questi sono duemila anni di storia che abbiamo alle spalle e che non possiamo cancellare».31
Gli italiani inoltre sono caratterizzati da tradizioni locali molteplici e diverse tra loro che portano in sé un ulteriore valore identitario. Ce lo ricorda il punto «d» del Curricolo: «rispetto di tradizioni territoriali e regionali del Paese accogliente, senza etnocentrismi». Pare di capire che l’alunno straniero verrà educato a conoscere le usanze di campanile al fine di esibire anche per esse un rispetto particolare, mentre la frase «senza etnocentrismi» presumibilmente non si riferisce all’assurdità della sottolineatura localistica delle tradizioni italiane, bensì al timore che il migrante –
messo di fronte a tale localismo italiano – ritenga di sviluppare coerentemente il ragionamento arrivando a rivendicare le proprie radici culturali.
Gli italiani infine (punto «b» del Curricolo) hanno una vita democratica basata (punto «a») su diritti e doveri; quindi l’alunno straniero deve essere educato a non derogare da quei doveri che gli
estensori della mozione considerano estranei alla sua cultura tanto da non poterli riconoscere, e cioè: «il rispetto per gli altri, la tolleranza, la lealtà, il rispetto della legge del paese accogliente». Di nuovo Luisa Capitanio Santolini [UDC] ce ne dà un’esemplificazione, mostrando bene quale immagine dei giovani stranieri riposa nella mente anche dei meno xenofobi di questi parlamentari:
Richiamo l'attenzione, con la mozione in esame, proprio sui giovani, perché non dobbiamo dimenticare che spesso questi giovani vengono in Italia, sulle nostre coste accompagnati non dai genitori naturali: hanno subìto una tratta già nei loro Paesi di origine, sono quindi deprivati dei loro affetti e il loro destino, se non si interviene, è quello dell'accattonaggio, se non addirittura di attività delinquenziali. Quindi, si tratta di giovani particolarmente a rischio, che possono magari rientrare nel racket della malavita della peggior specie.
A questo punto, una volta definito il Sé, è facile passare alla definizione dell’Altro, del migrante.
Abbiamo infatti tutti gli elementi per dedurre quale immagine dello scolaro e della scolara stranieri
emerge dalla mozione Cota: un soggetto all’origine culturalmente incapace di rispettare gli altri e intollerante, potenzialmente sleale, tendenzialmente incline a violare le leggi dei paesi ospitanti. Lo chiarisce in maniera cristallina Massimo Enrico Corsaro [AN] facendoci riaffiorare alla mente un classico degli stereotipi coloniali: la figura dell’«arabo sleale, trucchista e traditore»:
…prendersi cura di realtà, di fenomeni sociali, di famiglie e di bambini che provengono da posti, da
nazioni, da culture oggettivamente deficitarie quanto a cognizione di argomenti di questo genere... [si riferisce a legalità, lealtà, ecc].
Il migrante sarebbe infine un soggetto non cattolico e quindi caratterizzato da una diversa moralità, che deve essere educato al rispetto della moralità italiana derivata dal cattolicesimo e al rispetto del cattolicesimo stesso come religione dominante, maggioritaria e di superiore moralità32. Un soggetto incline a non rispettare le tradizioni locali che fondano la civiltà italiana ma che tende ad ignorarle per un vizio di radicato etnocentrismo. Un soggetto inferiore.
Ma questa separazione non serve solo alla rieducazione dell’Altro, alla sua assimilazione, alla sua civilizzazione. Essa serve anche a definire e a rafforzare l’identità degli studenti italiani, a celebrarli
in quanto portatori di una moralità superiore; ce lo spiega bene Benedetto Fabio Granata [AN]:
Il primo insegnamento alla cittadinanza deve riguardare gli italiani stessi, che devono essere consapevoli di che cosa è l'Italia e con quale forza vanno proclamati e difesi alcuni diritti e doveri all'interno delle scuole
Creare classi senza la presenza di bambini o bambine che parlano inizialmente altre lingue significa anche porre le premesse per poter nazionalizzare nuovamente il curricolo, ad esempio quello di storia, rafforzando l’orgoglio di appartenenza culturale ed etnica italiana e cattolica di fronte ad un pluralismo che di volta in volta viene percepito come potenziale minaccia e come oggetto di una possibile assimilazione, laica o religiosa:
E sappiamo bene che l'identità poggia, innanzitutto, sulla conoscenza della storia e di tutto ciò che è stato, sulla conoscenza delle nostre grandi civiltà del nord, ma anche di tutta l'Italia. Come posso pensare che nelle mie classi i bambini e i ragazzi non debbano studiare la storia della Serenissima, che non possano studiare la battaglia di Lepanto? Il 7 ottobre abbiamo celebrato la festa della Madonna del Rosario, festa che è stata istituita proprio a seguito della battaglia di Lepanto» Paola Goisis, [Lega Nord].
deve, però, cominciare a preservare tutte le differenze, ad iniziare da quella della cultura dell'identità italiana e nazionale che, al pari delle altre, deve ugualmente essere preservata, tutelata e messa in condizioni di esercitare un'attrazione a livello di integrazione nei confronti di chi arriva spinto dal bisogno, e dalla necessità» Benedetto Fabio Granata [AN].
Le classi-ponte in questo senso funzionano piuttosto come classi-fossato, scavate per fermare l’«invasione» di questi “barbari” dei nostri giorni che con il loro flusso continuo minacciano la crescita culturale delle nuove generazioni di italiani:
Nelle scuole e nei paesi del nord, invasi a causa del vostro buonismo (Commenti dei deputati del gruppo Partito Democratico), invasi in modo scientifico», Ettore Pirovano [Lega Nord].
«Ma qui stiamo parlando di bambini di circa venti, trenta etnie diverse, cara onorevole De Biasi, che, nel corso dell'anno, arrivano a Milano, nelle scuole di periferia, ininterrottamente, e non consentono ai bambini, tutti iscritti in quelle classi, la regolare frequenza e l'apprendimento che noi dobbiamo garantire» Valentina Aprea, sottosegretaria all’Istruzione [Forza Italia].
La permanenza nella classe-ponte sarà quindi la materializzazione, per i bambini e le bambine migranti, di una chiara alternativa: o accetteranno di assimilarsi alla cultura italiana riconoscendone la superiore civiltà, e allora ne usciranno presto…
«Dobbiamo noi educare questi bambini e questi ragazzi al rispetto delle nostre regole, della nostra tradizione e della nostra cultura - se vengono qui, essi devono accettare la nostra cultura» Paola Goisis, [Lega Nord],
…o accetteranno di amare l’Italia…
«Sogno studenti stranieri di colori diversi di pelle, che si sentano italiani, che amino l'Italia. A questo proposito ho sempre avuto un po' la mania di far sì che venga proposto e potenziato, ad esempio, uno studio più approfondito dell'arte per gli studenti stranieri: infatti, per amare l'Italia va conosciuta. Quindi una proposta che è il contrario del razzismo» Paola Frassinetti [AN].
…oppure verrà decretata la loro separazione scolastica sine die, la classe-ponte funzionerà da classe-ghetto. D’altronde – come sostiene Benedetto Fabio Granata, «affermiamo realmente, con la mozione in esame, che l'Italia spetta a chi la ama».
Il “reato di clandestinità” e la scuola.
La mozione che impegna ad istituire le classi ponte non è l’ultima delle iniziative governative razziste che coinvolgono istruzione e migranti.
Durante la primavera del 2009 parlamento e opinione pubblica sono stati impegnati a dibattere il nuovo «pacchetto sicurezza» del governo includente la norma che avrebbe reso la mancanza di permesso di soggiorno, cioè la condizione di cosiddetta «clandestinità» del migrante, un reato penale. Il progetto, vecchio cavallo di battaglia di AN e Lega, punisce per la prima volta una condizione e non un fatto materiale, come faceva notare un appello di giuristi sottoscritto prima dell’approvazione della legge:
L’ingresso o la presenza illegale del singolo straniero dunque non rappresentano, di per sé, fatti lesivi di beni meritevoli di tutela penale, ma sono l’espressione di una condizione individuale, la condizione di migrante: la relativa incriminazione, pertanto, assume un connotato discriminatorio ratione subiecti contrastante non solo con il principio di eguaglianza, ma con la fondamentale garanzia costituzionale in materia penale, in base alla quale si può essere puniti solo per fatti materiali33
La questione è di estrema importanza poiché l’istituzione di un reato penale “contro ciò che si è” fa
parte della grande famiglia dei razzismi (l’ebreo era discriminato perché era ebreo, l’africano perché di pelle nera) e colpisce la categoria – stranieri – che insieme agli “zingari” ha subito più forte il peso del razzismo sociale e politico degli ultimi vent’anni in Italia.
In luglio il disegno di legge è stato approvato e dall’8 agosto la norma è operativa. Durante l’iter parlamentare è nata più volte la discussione sulle conseguenze di tale articolo e la riformulazione del dettato aveva ad un certo momento raggiunto livelli persecutori ancora più ingenti, non solo con l’istituzione del reato e con il divieto di registrare le nascite e i matrimoni (elementi puntualmente entrati in vigore) ma anche con l’ipotesi di vincolare all’obbligo di denuncia i medici, gli insegnanti e i presidi, trasformando la salute e l’istruzione da un diritto della persona ad una trappola per i migranti, e le scuole e gli ospedali da luoghi di civiltà a territori della delazione. C’è voluto un doppio intervento paradossale (Alessandra Mussolini prima, firmataria di una lettera di deputati del Pdl e poi Gianfranco Fini come presidente del Senato) affinché il governo derubricasse – anche se solo parzialmente - dal dettato legislativo queste ultime due aberrazioni.34
In definitiva, per ciò che riguarda la scuola, la situazione con l’approvazione della legge risulta decisamente più persecutoria che nel passato. La norma precedente, art 6 del Testo unico sull’immigrazione, prevedeva un eccezione all’obbligo di esibizione del permesso di soggiorno per «l’accesso ai servizi pubblici», dei quali fa parte l’intero sistema scolastico. Con la nuova normativa l’art. 6 è stato modificato e l’eccezione riguarda ora i provvedimenti «attinenti alle prestazioni scolastiche obbligatorie»35. Il peggioramento è duplice, poiché non solo il migrante privo del permesso di soggiorno è divenuto dall’8 agosto un reo, ma anche perché l’indicazione di eccezione dall’obbligo di presentazione del permesso di soggiorno riguarda ora solo le prestazioni scolastiche obbligatorie e quindi potrebbe precludere il completamento degli studi superiori (che non sono obbligatori oltre il secondo anno) agli studenti privi del permesso.
Il dibattito pubblico sulla legge, condotto come sempre su toni enfatici e criminalizzanti, ha prodotto casi di applicazione anticipata e zelante (e ovviamente illegittima e discriminatoria) della futura norma. È il caso della dirigente dell’Istituto professionale per il commercio Casaregis, a Sampierdarena che ha fatto il giro delle classi e ha scritto platealmente sulla lavagna i nomi degli alunni stranieri che nel corso dell’anno avrebbero compiuto il diciottesimo anno di età e che non avevano chiarito la loro posizione relativa al permesso di soggiorno. Di fronte al caso sollevato da una lettera di insegnanti indignati, si è giustificata «sostenendo di aver scritto quei nomi sulla lavagna perché temeva altrimenti di sbagliarne la pronuncia, e che quello era semplicemente un invito a presentare al più presto i relativi documenti in segreteria» 36. Il 4 maggio 2007 toccava all’Istituto professionale Leonardo da Vinci di Padova dove la preside richiedeva letteralmente da un giorno all’altro la presentazione dei permessi di soggiorno agli alunni stranieri che avrebbero dovuto svolgere gli esami di maturità37. Qualche settimana dopo era la volta di Napoli dove Daria, una ragazza Ucraina, diventava caso nazionale perché - non avendo il permesso di soggiorno - non aveva il codice fiscale richiesto dalla circolare ministeriale del 22 maggio e quindi non poteva registrarsi per l’esame di maturità. Sul caso interveniva minimizzando il ministro Gelmini che dichiarava alla stampa: «Non c'è nessun motivo di legge per cui la ragazza di Napoli non possa affrontare l'esame di maturità» sconfessando la nota del suo ministero e facendo rientrare anche questa espulsione da scuola che avrebbe anticipato la legge38. L’ultimo contenzioso emerge a Milano ad opera della giunta comunale; l’iscrizione ai centri estivi organizzati dal Comune (l’iniziativa era significativamente intitolata «Milano amica dei bambini»), viene vincolata alla presentazione del «permesso di soggiorno in regola con la normativa vigente»39 e in giugno viene così comunicata l’esclusione dei bambini privi del documento. Come l’anno precedente per un analogo tentativo discriminatorio relativo alla frequenza negli asili nido, c’è voluta una sentenza del
Tar per ribadire, su ricorso di una mamma ecuadoriana, che la mancata accettazione dell’iscrizione
costituisce «attività discriminatoria, in quanto avente ad oggetto l' esclusione da un servizio pubblico fondamentale»40.
Oggi in Italia il principio che l’istruzione, senza discriminazioni di sorta, sia un diritto insindacabile di ogni individuo è contraddetto dai fatti fin qui esposti. Chiudo questo testo alla vigilia dell’apertura del nuovo anno scolastico; presumibilmente nei prossimi mesi da una parte si apriranno nuovi contenziosi giuridici riguardo agli studenti che, senza permesso, rivendicheranno il
loro diritto alla scuola, dall’altra però molte famiglie preferiranno evitare rischi e molti studenti di scuola secondaria saranno indotti ad abbandonare. Sulla stampa in questi giorni si discute sull’incriminazione per clandestinità dei 5 eritrei scampati alla morte che invece è toccata ai loro 73
compagni di gommone, tra cui dei minorenni. Eritrea, colonia “primigenia”. Chissà in che classi sarebbero finiti quei ragazzi se fossero scampati alla traversata, ai “respingimenti”, al razzismo italiano e alle classi ponte…
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1 I contenuti di questo saggio sono stati presentati in occasione del convegno Trasformazioni dello Stato e della società:deriva autoritaria e mobilitazione reazionaria, Massa Carrara, 18-19 aprile 2009 e alla Scuola estiva sul razzismo “Un'idea” del XV Meeting Internazionale antirazzista, Cecina (Li), 15 luglio 2009.
2 Nonostante il gran numero di procedimenti aperti a carico dei funzionari, il processo di defascistizzazione fu poco incisivo e si risolse presto in un’amnistia. In parallelo quegli anni videro l'insabbiamento e l'impunità degli italiani colpevoli di crimini di guerra in Africa, Iugoslavia ecc.
3 Renzo De Felice, Intervista sul fascismo, a cura di M. Ledeen, Laterza, Bari, 1975.4 Legge 15 luglio 2009 n. 94 Disposizioni in materia di sicurezza pubblica. Cfr anche Guido Neppi Modana, No a leggi razziali per gli irregolari, «Il sole 24 ore», 11 febbraio 2009.
5 La storia recente della querelle sulla rilevazione dattiloscopica in Italia parte dal 1995 dalle dichiarazioni dei senatori leghisti Enzo Erminio Boso e Luigi Peruzzotti che ipotizzavano di prenderle anche alle dita dei piedi degli extracomunitari. Per una cronaca puntuale: Annamaria Rivera, Regole e roghi. Metamorfosi del razzismo, Bari, Dedalo, 2009, pp. 39-46.
6 Alberto Burgio, Un’ipotesi di lavoro per la storia del razzismo italiano, in A. Burgio e L. Casali, Studi sul razzismo italiano, Bologna, Clueb, 1996.
7 Roberto Maiocchi, Scienza italiana e razzismo fascista, Firenze, La Nuova Italia, 1999.
8 In realtà manca ancora uno studio sistematico dei testi scolastici e della pubblicistica parascolastica al fine di misurare la diffusione di elementi antisemiti.
9 Gabriele Turi, Ruolo e destino degli intellettuali nella politica razziale del fascismo, in La legislazione antiebraica in Italia e in Europa: atti del Convegno nel cinquantenario delle leggi razziali, Roma, 17-18 ottobre 1988. – Roma, Camera dei deputati, 1989.
10 G. Bottai, Diario, 1935-1944, a cura di Giordano Bruno Guerri, Milano, Rizzoli, 1982.
11 Michele Sarfatti, La scuola, gli ebrei e l’ariazizzazione attuata da Giuseppe Bottai, in I licei G. Berchet e G. Carducci durante il fascismo e la resistenza, Milano, Grafiche Pavoniane Artigianelli, 1996.
12 Le parole sono tratte da appunti redatti tra il 6 e l’8 aprile 1938 e approvati da Mussolini, cfr. Giorgio Fabre, L’elenco. Censura fascista, editoria e autori ebrei, Torino, Zamorani, 1998, pp. 75-80.
13 Circolare n, 20439 del 22 luglio 1939: Libri di testo per le scuole e direttive razziali, AdS-Bo, fondo Provv. Studi Bo, b. 153 fasc. B 33.
14 Circolare Ministro Bottai ai R. Provveditori agli studi, ogg. Rivista «La Difesa della Razza» – Diffusione; AdS-Mo, fondo Provv. Studi, b. Difesa della razza.
15 PNF, Il secondo libro del fascista, Verona, Mondadori, 1939. Una prima ristampa è stata curata da Domenico De Masi e Romolo Runcini, P.N.F. Manuale di educazione fascista, Roma, Savelli, 1977.
16 Tra dicembre 1938 e gennaio 1943 abbiamo contato sei circolari.
17 Le citazioni sono tratte dall’edizione intitolata Il primo e secondo libro del fascista, Verona, Mondadori, XIX [1941], p. 144, 147 e 149.
18 Cfr. Adolfo Mignemi, Profilassi sanitaria e politiche sociali del regime per la “tutela della stirpe”. La “mise en scéne” dell’orgoglio di razza, in La menzogna della razza, Bologna, Grafis, 1994.
19 R. Istituto Tecnico “Riccati”. Treviso, Per la difesa della razza, Longo & Zoppelli, marzo 1940, cfr. Francesco Piazza, L' antisemitismo tra Otto e Novecento nel trevigiano Cierre ed., 2001. L’opuscolo è stato ristampato integralmente su «diario della settimana», III, 27, 8-14 luglio 1998 accompagnato da un intervento di Michele Sarfatti, Scuola di razza.
20 Ivi, p. 5.
21 M. Prevedello, materie letterarie, ivi, . 9.
22 G. Zaniol, Lettere italiane e storia, ivi, p. 17.
23 M. Brandi, Materie letterarie, ivi, p. 6.
24 O. Cereser, Agraria, ivi, p. 13.
25 Giovanni Timossi, Vice Presidente dell’Istituto storico della Resistenza di Parma, intervento al convegno Le leggi razziali e la persecuzione antiebraica in Italia, 16 dicembre 1988].
26 Mozione Cota ed altri n. 1-00033, approvata il 14 ottobre 2008 alla Camera dei Deputati.
27 Alla mozione non hanno seguito, per ora, progetti di legge. C’è da registrare però che tra gli effetti della mancata gestione del diritto abitativo anche per i migranti c’è la crescita di scuole ad alta densità di stranieri. Inoltre l’attribuzione della nuova «ora di italiano potenziato» nel contesto del nuovo assetto orario della scuola secondaria di primo grado introdotto proprio quest’anno ha indotto molte scuole a formare le classi prime raggruppando gli studenti stranieri. Si tratta di due meccanismi indiretti che producono effetti simili a quelli delle «classi-ponte».
28 Paola Goisis, illustratrice della mozione.
29 Mozione Cota ed altri n. 1-00033, cit.
30 Dal resoconto stenografico della discussione parlamentare sulla mozione Cota ed altri 1-00033, come pure le altre citazioni che seguono.
31 Si tratta di argomentazioni che hanno lunghe radici anche il Italia e che spesso venivano agitate contro la laicità della scuola e contro il rispetto di chi non professava la religione dominante. Ad esempio in questo episodio di fine Ottocento a Treviso assumono le venature dell’antisemitismo. L’iscrizione di alcune allieve di religione ebraica nel Collegio di San Teonisto, educandato municipale femminile con caratteristiche cattoliche, spinge il Vescovo ad aprire una lotta per la loro espulsione, preoccupato di «quanto scandalo» potessero «soffrire le fanciulle cristiane», «quanti danni alla loro educazione» dalla convivenza con le compagne ebree. Di fronte alla scelta del Consiglio comunale di mantenere l’iscrizione nonostante i boicottaggi del Vescovo, l’abate Luigi Bailo, insegnante nel Collegio, pubblicò sulla «Gazzetta di Treviso» un intervento intitolato Si possono leggere gli ‘Inni sacri’ di Manzoni in scuole miste? in cui retoricamente argomentava la propria angoscia di professore che non poteva più svolgere in piena libertà il suo lavoro di docente di letteratura italiana per non offendere il sentire religioso delle allieve israelitiche. Cfr. Francesco Piazza, L'antisemitismo tra Otto e Novecento nel trevigiano, Istituto per la storia della Resistenza e della società contemporanea della Marca trevigiana, Treviso, 1996
32 Questa spropositata attenzione alla diversa religione dei migranti è evidentemente figlia dell’ignoranza dei dati reali. Consultando i numeri (dicembre 2006) del dossier statistico immigrazione di Caritas/Migrantes, con stime su dati del Ministero dell’Interno, si apprende facilmente che il 48,6% degli stranieri è Cristiano (il 18,6% cattolico); i musulmani sono il 32,6%, gli Induisti il 2,7%. Immigrazione: dossier statistico 2007: XVII rapporto / Caritas e Migrantes – Roma, IDOS, 2007.
33 Appello di giuristi contro l’introduzione dei reati di ingresso e soggiorno illegale dei migranti, 25 giugno 2009, Angelo Caputo e altri.
34 Ddl sicurezza, rivolta nel Pdl. “Norme inaccettabili, niente fiducia”, «la Repubblica» on line, 18 marzo 2009; Sicurezza, Fini contro Maroni. “Chiarimenti sui presidi-spia”, «la Repubblica» on line, 4 maggio 2009.
35 Legge 15 luglio 2009 n. 94 cit.
36 Studenti "clandestini": i nomi sulla lavagna, «genova.repubblica.it» 19 maggio 2009.
37 Padova, niente esame di maturità senza permesso di soggiorno, «la Repubblica.it», 21 maggio 2009. Vedi anche la circolare riprodotta.
38 Napoli, bravissima ma clandestina. Per Daria niente esame di maturità, «la Repubblica.it», 7 giugno 2009.
39 Comune di Milano; Direzione Centrale Famiglia, Scuola e Politiche Sociali; Settore Servizi per Minori e Giovani, Estate 2009: Milano amica dei bambini, Comunicato dell’11 marzo 2009.
40 Il tribunale dà torto al Comune 'Sì ai clandestini nei centri estivi', «la Repubblica», Milano, 07 luglio 2009.
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