sabato 25 aprile 2009

Dal colonialismo liberale alle leggi razziali, ai decreti razzisti di oggi

di Nicoletta Poidimani

Con questo intervento presento alcuni estratti di una mia ricerca sulla genealogia delle politiche razziali e sessuali nell’impero coloniale fascista che sarà pubblicato all’inizio di maggio dalla cooperativa editrice Sensibili alle Foglie col titolo Difendere la ‘razza’. La tesi di fondo del mio lavoro è che se – come sostiene Luciano Parinetto nel suo La traversata delle streghe nei nomi e nei luoghi (Colibrì, 1997) – il Nuovo Mondo è stato il terreno sperimentale dei dispositivi della caccia alle streghe europea, il Corno d’Africa è stato il laboratorio delle politiche razziali e sessuali attuate nell’Italia fascista. Analogamente, le attuali politiche securitarie rappresentano la sperimentazione, sulla pelle dei/delle migranti, di politiche di controllo e repressione. Una sorta di “colonialismo interno” che si legittima proprio con la riattivazione di vecchi e sperimentati dispositivi razzisti e de-umanizzanti formatisi nei cinquant’anni di esperienza coloniale in Africa e con cui non sono mai stati fatti i conti.
Uno dei più importanti storici del colonialismo italiano, Angelo Del Boca, nel saggio I crimini del colonialismo fascista ha documentato la censura in Italia su pratiche di incarcerazione nelle colonie, atti di squadrismo, apartheid, guerra chimica, eccidi e deportazioni di massa, campi di sterminio. Altrove Del Boca avanza anche un’interessante ipotesi su silenzi, censure e rimozioni da cui ancora oggi è affetta la nostra memoria storica. Non si tratterebbe semplicemente degli effetti della propaganda fascista, ma anche di precise responsabilità politiche successive:
La mancata punizione per crimini così gravi ha ingenerato nella maggioranza degli italiani una visione assolutamente sfocata o distorta dei fatti accaduti in Africa. Ma forse è più esatto parlare di rimozione quasi totale, nella memoria e nella cultura del nostro paese, del fenomeno del colonialismo e degli arbitri, soprusi, crimini, genocidi ad esso connessi. A più di cento anni dallo sbarco a Massaua del colonnello Tancredi Saletta e a mezzo secolo dall’aggressione fascista all’Etiopia, l’Italia repubblicana non ha ancora saputo sbarazzarsi dei miti e delle leggende che si sono formati nel secolo scorso, mentre una minoranza non insignificante di nostalgici li coltiva amorevolmente e li difende con iattanza. Questa rimozione dei crimini è dovuta soprattutto al fatto che in Italia, a differenza che in altri paesi, non è mai stato promosso un serio, organico ed esauriente dibattito sul fenomeno del colonialismo. Si è anzi tentato, da parte di alcune istituzioni dello Stato, di intorbidire le acque con il preciso disegno di impedire che la verità affiorasse, mentre una storiografia di segno moderato o revisionista favorisce palesemente la rimozione delle colpe coloniali. [Del Boca Angelo, “Introduzione”, in: Del Boca Angelo (a cura di), Le guerre coloniali del fascismo, Laterza 1991]

Premetto che uso il termine ‘razza’ tra virgolette perché questa categoria è reale solo in quanto effetto di rapporti di potere e non ha nulla di biologico. Analizzerò ora la genealogia di questo dispositivo identitario in relazione al processo di costruzione nazionale in Italia.
Alberto Banti, nel suo La nazione del Risorgimento, esplora i dispositivi attraverso cui si è costituita l’identità nazionale, a partire da testi che costituirono una sorta di ‘canone’ di riferimento per la costruzione dell’immaginario patriottico risorgimentale. Fra gli elementi che emergono dalla sua ricerca, alcuni li possiamo ritrovare, aggiornati, nella propaganda dell’impero fascista. L’ onore, in particolare, categoria-valore che dalla società cetuale venne ripresa e fatta propria dal linguaggio patriottico, in epoca fascista imperiale sarebbe riapparsa, aggiornata, nella formula del prestigio di razza che tutti i cittadini erano tenuti a difendere.
La difesa dell’onore implicava, secondo Banti, una ridefinizione precisa dei ruoli di genere:
Nella struttura delle narrazioni i fondamentali valori da difendere o da riscattare sono la valentía militare, la concordia, la purezza delle donne. Ciascuno di essi corrisponde a differenti funzioni svolte dai personaggi fondamentali della narrazione […], e sono collocate all’interno di un sistema gerarchico, nel quale il secondo e il terzo valore dipendono, in definitiva, dal primo: affinché una comunità possa vivere in concordia – vale a dire senza tradimenti e lotte intestine –, e affinché le donne della comunitàpossano preservare la loro purezza, è necessario che gli uomini […] sappiano usare il loro valore militare, così da poter ottenereil rispetto degli stranieri, ma anche dei membri moralmente più deboli della comunità, vale a dire quelli più esposti alle sirene del tradimento. Il tema della minaccia all’onore delle donne ha un ruolo cruciale nell’economia di questo discorso. […] Nel linguaggio dell’onore […] la verginità, ma anche la purezza, di una donna sono espressioni simboliche che scandiscono i confini relazionali di un gruppo rispetto ad altri gruppi. Nell’evoluzione dei vari codici dell’onore dell’Europa moderna, i confini riguardano solitamente la perimetrazione dei gruppi che articolano le società di ordini (i ceti); nella trasposizione di questo linguaggio dentro la narrativa nazionale, il confine simbolico va a circondare comunità differenti, le cui caratteristiche fondamentali non appartengono più alla sfera del sociale (lo status, la collocazione economica, il potere), ma alla sfera dell’etnicità e della territorialità.
E fu proprio ad una nuova perimetrazione etnico-territoriale che si assistette quando, all’indomani della conquista dell’Etiopia, Mussolini affermò “Gli imperi si conquistano con le armi, ma si mantengono con il prestigio”. Questo motto sanciva la politica di segregazione razziale che avrebbe accompagnato gli anni dell’impero nell’Africa Orientale Italiana (A.O.I.). Fu infatti con la conquista dell’Etiopia e la costituzione dell’A.O.I. (Regio decreto 1010, 1 giugno 1936) che il termine ‘prestigio’ acquisì maggior potere evocativo e fu sempre più utilizzato come elemento-chiave della propaganda razzista. Successiva ad altre leggi che disciplinavano le relazioni razziali nei territori italiani d’oltremare, la legge n. 1004 del 29 giugno 1939, due anni dopo la dichiarazione dell’impero, si focalizzava in modo particolare sulla difesa del prestigio di razza.
Se nel Risorgimento la costruzione dell’identità nazionale aveva implicato la ‘nazionalizzazione dell’onore’, che spostava la questione dal piano delle relazioni private a quelle sociali e collettive, durante il regime imperiale fascista avvenne una sorta di imperializzazione dell’onore: perseguibile era non solo l’italiano che, in qualche modo, ‘tradiva’ la posizione razziale egemonica in cui l’impero di Mussolini l’aveva posto, ma anche il colonizzato che offendendo un singolo italiano faceva un affronto all’intera ‘razza’ dominante. La propaganda razzista del regime di Mussolini fece uso di una precisa strategia: produrre nuovi elementi ideologici richiamandosi a qualcosa di già familiare alla cultura italiana. Riattivando, quindi, dei dispositivi e innestandovi concezioni specifiche del regime fascista spesso suffragate da nuove conoscenze ‘scientifiche’ abilmente adattate allo scopo.
La concezione degli italiani come appartenenti ad una stessa ‘razza’ aveva già fatto la sua comparsa proprio in alcuni testi del ‘canone’ risorgimentale. Dalla rappresentazione dell’Italia come madre che chiama i propri figli – i famosi ‘Fratelli d’Italia’ evocati tutt’oggi nell’inno nazionale – a difendere il suo onore in pericolo, e dalla traduzione di questa relazione parentale nell’“idea del carattere naturale della comunità nazionale”, si arrivò alla denotazione della nazione come “comunità fondata sull’unione politica, geografica ed etnografica”, cioè anche razziale. E se poteva esserci, per gli autori, un oscillare tra concezione razziale e concezione culturalista, come nel caso di Cesare Correnti, altre volte la razza era chiaramente nominata come “importante elemento costitutivo della nazione”, e in questi termini veniva legata strettamente alla cittadinanza intrecciando, così, lo ius sanguinis allo ius soli,significativa traccia di un discorso sull’identità razziale italiana che grande importanza avrebbe avuto nella successiva elaborazione fascista – come vedremo a proposito del ‘meticciato’.

Indagare la genealogia della categoria di ‘razza’ nella cultura italiana, si è visto, permette di portare alla luce la produzione di pensiero che stava alla radice dell’identità nazionale. Le questioni razziali che emersero tra Nord e Sud Italia lungo il periodo dell’unificazione nazionale, all’avvento del fascismo si presentavano ancora come irrisolte. Se già all’epoca dell’unificazione italiana era presente in Italia un dibattito riguardante le questioni razziali, lungo l’intero periodo coloniale e in particolare dopo la vittoria italiana nella guerra d’Etiopia e la conseguente dichiarazione dell’impero fascista i discorsi razziali avrebbero acquisito nuova rilevanza, spostando definitivamente le razze ‘altre’ al di fuori dei confini nazionali. Era, questo, un tentativo di costruire quell’idea di identità nazionale che faticava ad esistere realmente a causa della disparità economica tra un Sud rurale spartito tra pochi proprietari terrieri e un Nord più coinvolto nella crescita economica – disparità che si rispecchiava in concezioni fortemente razziste nei confronti dei meridionali. L’unità, inoltre, aveva portato con sé un aggravamento delle condizioni di vita dei contadini, fenomeno, questo, che spinse migliaia di famiglie ad emigrare, nella seconda metà del XIX secolo, in altre parti del mondo, specialmente negli Stati Uniti e in America Latina.
Se prima dell’unità la quota maggiore di emigranti era composta da settentrionali che si spostavano temporaneamente verso paesi europei, con l’unità d’Italia ebbe inizio la migrazione transatlantica, che coinvolgeva tanto gli abitanti del Nord quanto quelli del Sud, ed era un’emigrazione permanente. Come viene sottolineato da Ciuffoletti e Degl’Innocenti, autori di uno dei più esaustivi studi sull’emigrazione italiana ( L’emigrazione nella storia d’Italia 1868-1975, Vallecchi 1968):
Prima del 1887 la componente settentrionale rappresentava il 68 per cento dell’emigrazione italiana e quella meridionale il 27 per cento; negli anni successivi si registrò un’inversione immediata che si fece ancora più marcata ai primi del Novecento portando il contributo settentrionale al 35 per cento e quello meridionale al 47 per cento. Intanto, si poteva assistere al primo manifestarsi dell’esodo anche nelle campagne delle regioni dell’Italia centrale, dove i rapporti di produzione prevalenti, fondati sul sistema mezzadrile, avevano rappresentato un grosso ostacolo sia economico che culturale alla emigrazione. Per finire, volendo dare soltanto alcune cifre a titolo indicativo, mentre il totale dell’emigrazione ammontava nel 1886 a 167.829, la cifra salì nel 1888 a ben 290.736 unità.
Inoltre questo fenomeno era condizionato tanto dalle offerte del mercato del lavoro, quanto dalle condizioni della lotta di classe:
A partire dal 1887, l’emigrazione verso i paesi europei, che pure rimaneva elevata e continuava anzi a salire, fu superata dall’emigrazione diretta verso le Americhe. Al fenomeno era interessata ogni regione italiana, del Nord come del Sud, ma dopo il 1896, ossia dopo la repressione dei Fasci e l’estendersi della crisi agraria, ad aumentare il quoziente dell’emigrazione meridionale intervenne il rapido incremento dell’emigrazione siciliana, diretta – al pari di quella campana e abruzzese – verso gli Stati Uniti.
[…] L’andamento migratorio sembrava dipendere esclusivamente dalla forza di attrazione dei diversi mercati, da quelli forti del Centro Europa a quelli americani in genere. Le cause di ordine interno sembravano incidere sulla composizione regionale del flusso migratorio più che sul ritmo complessivo e sugli aspetti quantitativi. Non a caso decrebbe al Nord e aumentò al Sud in rapporto inverso rispetto al numero di scioperi e allo sviluppo dell’organizzazione sindacale.
Per dare un’idea dell’incidenza del fenomeno migratorio basti dire che alla fine dell’800 l’Italia era il paese europeo con la quota più alta di emigrazione transoceanica e che all’inizio del ’900 la maggior parte della manodopera migrante a livello mondiale proveniva dall’Italia. Gli stessi dati sull’analfabetismo dei migranti, emersi in conseguenza ai ripetuti tentativi statunitensi di rendere più difficoltoso l’accesso al Paese, esprimevano chiaramente le condizioni sociali della gente del Meridione italiano:
Fra il 1899 e il 1910, su 1.690.376 emigranti italiani provenienti dalle regioni meridionali e insulari (compresa la Liguria e la Toscana) quasi il 54%, di età superiore ai 14 anni, non sapeva né leggere, né scrivere.

Decenni più tardi, La Difesa della Razza – pubblicazione quindicinale (1938-1943) allineata all’indirizzo razzista del regime fascista – avrebbe tenuto in grande considerazione l’esperienza emigratoria degli italiani per definire i confini della ‘razza italiana’. A questa tematica vennero dedicati, in particolare, alcuni articoli del numero del 20 novembre 1938, l’intero numero monografico del 5 dicembre 1938 e una parte del numero del 5 gennaio 1939.
Cronologia significativa, in quanto seguiva immediatamente l’entrata in vigore del decreto legge n. 1728 del 17 novembre 1938, cioè i Provvedimenti per la difesa della razza italiana.
Che La Difesa della Razza seguisse attentamente il dibattito politico sulle questioni razziali per amplificarlo è testimoniato dal fatto che già il 20 settembre 1938 era apparso un articolo dedicato al nesso tra ‘razza’ e cittadinanza.
In esso il giudice Baccigalupi accusava i governi liberali di non aver tenuto conto dei principi razziali nella concessione della cittadinanza agli stranieri, mentre gli emigrati erano stati abbandonati al loro destino. Dunque, l’entrata in vigore delle leggi razziali apriva la questione della non corrispondenza dei confini della ‘razza italiana’ con quelli territoriali, e portava in primo piano tanto la realtà dell’emigrazione quanto una rivendicazione di italianità dei territori non regnicoli popolati anche da nuclei di ‘razza italiana’.
Guido Landra, antropologo razzista estensore del Manifesto del Razzismo Italiano, scriveva:
La distribuzione geografica della pura razza italiana non si limita agli italiani tali per cittadinanza. Quando si dice razza si intende affermare un concetto concreto che non risulta da una pura e semplice speculazione spirituale, o da considerazioni storicolinguistiche, ma è invece basato sulla oggettiva constatazione di fatto di una grandiosa verità della Natura. Questa razza italiana, perciò, che si estende molto oltre i confini politici d’Italia, noi la vediamo rappresentata da masse compatte di migliaia e migliaia di uomini e donne in tutto identici a quelli che vivono al di qua dei confini. […] Una razza umana difatti si può paragonare ad un corpo umano, nel quale ogni organo e ogni membro non può essere considerato a sé stante. I confini politici quando non coincidono con quelli razziali rappresentano senza dubbio dei tagli nel corpo armonico della razza; ma se questa razza è forte e vitale, il che vuol dire se questa razza è pura, i tagli costituiti dai confini politici non possono mai essere così profondi da staccare definitivamente la parte dal tutto. […] la realtà concreta della razza non subisce mutamento che per opera dell’imbastardimento.
[Landra Guido, “Razza italiana oltre confine”, in: La Difesa della Razza, II, 2 (20 novembre 1938)]
L’autore passava, poi, ad enumerare i “gruppi di uomini della nostra razza che non hanno la cittadinanza italiana” – fra i quali i Corsi, appartenenti all’antica provincia romana; i Nizzardi, “in tutto identici ai liguri”; gli italiani della Tunisia, “in prevalenza di origine siciliana o sarda”; i Maltesi, “ariani né più né meno che gli altri italiani”. La conclusione di questo percorso nella diaspora mediterranea dell’‘italianità’ non poteva che essere l’ampliamento dell’azione in difesa della razza “ovunque si trovi un nucleo razzialmente italiano”.

Con la proclamazione dell’impero sembrò profilarsi la definitiva soluzione del problema emigratorio: gli italiani non sarebbero più dovuti migrare in terre straniere ora che veniva fornita loro la concreta possibilità di partecipare alla colonizzazione demografica delle terre ‘italiane’ d’oltremare. Sembrava dunque concretizzarsi, con l’impero, quel sogno che da tempo i governi italiani avevano cercato di realizzare: conquistare delle colonie per convogliare in esse la forza lavoro che altrimenti si sarebbe diretta in terre d’altri, e fare dei territori conquistati una culla di ‘italianità’.
Già negli anni ’70 dell’800, cioè prima che l’Italia intraprendesse l’impresa coloniale, erano circolate idee al proposito.
Ne è prova una lettera di Sonnino, inviata al direttore del giornale La Nazione nel 1875, ove si legge:
Io credo che nella questione agraria lo Stato possa e debba intervenire efficacemente e giustamente nei seguenti modi: […]
6) coll’istituire delle colonie italiane a cui dirigere la corrente degli emigranti.
Gli anni ’80 di quel secolo avevano visto la questione dell’emigrazione legarsi in maniera indissolubile al progetto coloniale, e nel 1885, anno del Congresso di Berlino, nel Parlamento italiano De Renzis sostenne la necessità per l’Italia di un “posto al sole dell’Africa”:
Se dunque colonia agricola dobbiam cercare, essa deve essere anzitutto vicina. E non basta: dev’essere creata su terra produttiva, su terreni a buon mercato, ed appartenga a un solo, proprietario e colono al tempo istesso. Sia di colui che vi mette il proprio sudore. […] Noi, o signori, infine questo soltanto domandiamo: di avere anche noi il nostro posto al sole dell’Africa.
Il posto al sole sarebbe poi diventata espressione ricorrente nella propaganda coloniale fascista. La stessa posizione geografica dell’Italia nel Mediterraneo, considerata “il naturale intermediario del commercio fra l’Africa, l’Asia e l’Europa”, venne utilizzata dal colonialismo liberale come ulteriore giustificazione dell’impresa coloniale in Africa.
La colonizzazione sembrava poter risolvere anche altre due altre questioni che premevano ai governi post-unitari.
Da una parte, la creazione di una Magna Italia era presentata come l’antidoto alla dispersione dell’identità nazionale italiana nelle terre d’emigrazione. D’altra parte, la colonizzazione avrebbe permesso il contenimento delle tensioni e del conflitto sociale emersi con i moti contadini in territorio italiano quindi, rappresentava, al contempo, il “miglior provvedimento d’igiene sociale” e di riscatto sociale – “da proletarii in proprietarii”. E fu proprio dai nessi tra la cosiddetta ‘questione meridionale’, i dibattiti sull’emigrazione e la propaganda coloniale di fine ’800 che nacque il “colonialismo meridionalista”, di cui Leopoldo Franchetti fu l’esponente principale. Il deputato Franchetti – “liberale monarchico”, come egli stesso si definì – entrato alla Camera nel 1882, in un intervento su “L’avvenire della nostra colonia”, aveva sostenuto:
Tutte le nazioni del mondo civile, e l’Italia forse più delle altre, sono tormentate dal problema della miseria. In Italia, migliaia di famiglie ricche di braccia atte al lavoro, o non riescono ad impiegarle, o devono impiegarle in lavori il cui compenso non basta ai bisogni più essenziali della vita. È dovere, è interesse dello Stato riservare le terre di cui dispone a quella parte della nazione cui la terra italiana non dà lavoro e pane sufficiente.
Ma la sua rapida disillusione divenne lampante quando, già senatore dal 1909, nell’aprile del 1911 in una seduta del Senato dichiarò:
Non so se l’Italia abbia fatto bene ad entrare nella via coloniale. Io, per l’esperienza che ne ho, dovrei dire che ha fatto molto male; e debbo dire ciò dopo aver amato ardentemente le nostre colonie. Ha fatto molto male perché le nostre classi dirigenti non sono mature, non solo per le imprese di conquista ma anche e soprattutto per impresa di messa in valore; e purtroppo i risultati sono finora disastrosi.
Cercò quindi di intervenire nella formazione delle classi dirigenti ancora ‘immature’. Sfruttando il ruolo di presidente dell’Istituto Agricolo Coloniale e della Società di Studi Geografici e Coloniali, sarebbe, poi, tornato a proporre l’espansione oltremare come soluzione al problema dell’emigrazione e del conflitto sociale.

Nel dicembre del 1910 si tenne a Firenze il primo congresso nazionalista – definito dagli organizzatori, fra cui il leader nazionalista Corradini, “congresso di italianità”. Promozione della politica coloniale e difesa dell’italianità apparivano già fra i punti del programma proposto ai possibili relatori:
c) promuovere una politica coloniale più energica, sia col sospingere l’attività dello Stato e di tutte le forze collettive ed individuali verso la conquista di nuove colonie, sia col favorire tutte le iniziative tendenti a mettere in valore quelle già assicurate al nostro dominio; d) appoggiare tenacemente ogni azione diretta a conservare la nostra nazionalità nelle regioni che costituiscono parte integrante della nazione, ed ovunque l’italianità sia minacciata di soppressione o di assorbimento.
Da qui l’ipotesi che se l’Africa fosse stata colonizzata dall’Italia la condizione del Sud e della Sicilia sarebbe stata ben diversa, addirittura la questione meridionale sarebbe stata risolta. Secondo Corradini, non bisognava aspettare di essere ricchi per colonizzare ma, anzi, la ricchezza sarebbe venuta proprio dal colonialismo. L’aspetto più interessante del suo intervento al congresso fu senza dubbio il discorso sulla “nazione proletaria” – tale espressione, ampiamente utilizzata all’epoca, aveva motivato l’adesione di molti socialisti al progetto coloniale. Corradini l’intendeva addirittura come il superamento della lotta di classe:
Dobbiamo partire dal riconoscimento di questo principio: ci sono nazioni proletarie come ci sono classi proletarie; nazioni, cioè, le cui condizioni di vita sono con svantaggio sottoposte a quelle di altre nazioni, tali quali le classi. Ciò premesso, il nazionalismo deve anzitutto batter sodo su questa verità: l’Italia è una nazione materialmente e moralmente proletaria. Ed è proletaria nel periodo avanti la riscossa, cioè nel periodo preorganico, di cecità e di debilità mentale. Sottoposta alle altre nazioni e debile, non di forze popolari, ma di forze nazionali. Precisamente come il proletariato prima che il socialismo gli si accostasse. I muscoli de’ lavoratori eran forti com’ora, ma che volontà avevano i lavoratori di elevarsi? Erano ciechi sul loro stato. Or che cosa accadde quando il socialismo disse al proletariato la prima parola? Il proletariato si risvegliò, ebbe un primo barlume sul suo stato, intravide la possibilità di mutarlo, concepì il primo proposito di mutarlo. E il socialismo lo trasse con sé, lo spinse a lottare, formò nella lotta la sua unione, la sua coscienza […]. Ebbene, amici, il nazionalismo deve fare qualcosa di simile per la nazione italiana.
Deve essere, a male agguagliare, il nostro socialismo nazionale. Cioè, come il socialismo insegnò al proletariato il valore della lotta di classe, così noi dobbiamo insegnare all’Italia il valore della lotta internazionale. Ma la lotta internazionale è la guerra?
Ebbene, sia la guerra! E il nazionalismo susciti in Italia la volontà della guerra vittoriosa. […] Noi insomma proponiamo un “metodo di redenzione nazionale” e con un’espressione estremamente riassuntiva e concentrata lo chiamiamo “necessità della guerra”. […] Un metodo finalmente per rinnovare un patto di solidarietà di famiglia fra le classi della nazione italiana. […] Insomma, l’Italia da quando è costituita in libertà e in unità, ha perduto due guerre e non ha risolta la quistione del Mezzogiorno. […] Non ha sospettato neppure che si potesse imprimere all’emigrazione un moto verso una finalità nazionale. […] C’è bisogno d’un’opera di revisione generale. Il nazionalismo si propone quest’opera.
L’esperienza dell’emigrazione era talmente radicata negli strati sociali più bassi che la stessa partenza volontaria per la guerra d’Etiopia, nel 1935, veniva vissuta come un processo migratorio – come emerge da una ricerca svolta da Gianni Dore ( Antropologia e colonialismo italiano, miscellanea, 1996) tra i reduci della guerra d’Etiopia provenienti dalle zone rurali della Sardegna. Le testimonianze raccolte tra gli ex soldati-contadini sardi sono eloquenti:
Tutti gli intervistati, partiti volontari, affermano di essere andati in Etiopia “per lavorare”: è significativo che fossero allora servi, pastori, braccianti giornalieri, disoccupati. […] Così la partenza per la guerra diventa una vera e propria emigrazione forzata, aperta da una guerra che, come fa intendere la propaganda e spiegano i reclutatori nei villaggi, la disparità tecnologica tra i due eserciti avrebbe dovuto rendere facile e incruenta. Nei paesi cui appartengono gli intervistati, la partenza degli uomini per l’Africa è vissuta, più che come tragica partecipazione all’evento bellico, come ripetersi del fenomeno ben conosciuto dell’emigrazione.
I prezzi d’ingaggio […] e poi [i] vaglia spediti dall’A.O.I., come delle rimesse, segnano questa peculiarità della guerra coloniale.
Dopo la conquista di Addis Abeba, buona parte dei soldati e militi intervistati fecero domande per restare come coloni; circa 150.000 smobilitandi, secondo le statistiche ufficiali, volevano restare in A.O.I., generando una situazione di caotica confusione. [corsivo mio]
Una tragica condizione sociale, quindi, fatta di miseria e precarietà emerge alle spalle della propaganda bellica.
Alla guerra d’Etiopia non partecipò una massa compatta di conquistatori di convinta fede fascista, come si voleva invece far credere. La fame era una fra le ragioni che spingeva gli uomini a vedere nel progetto coloniale un’alternativa all’emigrazione. La griglia di lettura della propria partecipazione all’impresa, almeno per molti proletari e disoccupati, non era affatto quella dell’appartenenza ad una ‘razza’ di conquistatori, come tuonava sempre più insistente la propaganda, ma quella molto più concreta dell’esperienza migratoria. Ovviamente il fascismo tendeva a non far trasparire questa realtà. Anzi, all’opposto, le “virtù guerriere” venivano esaltate come elemento di identità razziale.
“Spada e vanga” divennero gli strumenti della propaganda coloniale che accompagnò l’Italia nella guerra contro l’Etiopia. Conquistata l’Etiopia e dichiarato l’Impero dell’Africa Orientale Italiana, si trattava ora di far rientrare gli emigrati e far confluire anche la loro forza lavoro nelle colonie.
Mentre in Italia il terreno sperimentale per la ‘fusione materiale’ in un’unica ‘razza’ era costituito dalle zone bonificate che venivano via via popolate secondo un preciso progetto di “ruralizzazione dell’Italia”, la guerra contro l’Etiopia, il rientro degli emigrati e la colonizzazione demografica dei territori dell’impero avrebbero dovuto sancire la definitiva fusione razziale degli italiani. Sarebbe stata cancellata per sempre quella distinzione razziale tra italiani del Nord e del Sud che, all’indomani dell’unificazione italiana, era diventata un luogo comune ampiamente condiviso – luogo comune che aveva anche trovato una legittimazione ideologica nei nuovi saperi dominanti. In Italia, infatti, nel secondo ’800, l’affermarsi delle discipline antropologiche era andato di pari passo con lo sviluppo e la diffusione di discorsi scientifici sull’inferiorità razziale anche dei meridionali, legittimandone lo sfruttamento.

È noto che il termine ‘razza’ ha un’ambigua etimologia. Ma La Difesa della Razza ne trovò un etimo molto utile per la costruzione dell’intero apparato ideologico: il termine latino radix (radice). La Difesa della Razza come strumento ideologico del regime ebbe un ruolo attivo anche nel ridefinire la funzione dell’antropologia. La “purezza razziale”, a parere degli antropologi razzisti, non andava cercata nel passato ma doveva invece essere un progetto per il futuro. Veniva così a delinearsi un’antropologia di taglio politico che guardasse all’avvenire. Il razzismo sarebbe, così, assurto a motore dell’evoluzione umana, rappresentando un istinto di conservazione razziale che avrebbe spinto alla formazione delle comunità e, successivamente, dello Stato:
Così lo Stato nasce razzista. […] la razza così detta pura non rappresenta un passato ma un divenire. Pertanto, nel proclamarsi francamente, decisamente razzista, lo Stato moderno non rinnega la sua origine, ma si perfeziona.[Nieddu Ubaldo, “Razza e diritto”, in: La Difesa della Razza, II, 9 (5 marzo 1939)]
Scrive Guido Landra nel numero monografico di La Difesa della Razza dedicato al ‘meticciato’ (20 marzo 1940):
Sono state le applicazioni della dottrina dell’ereditarietà alla scienza dell’uomo che hanno trasformato la vecchia antropologia nella moderna biologia delle razze umane. Nella biologia delle razze umane lo studio dei meticci occupa un posto di primo ordine ed è sui risultati di tale studio che trova la sua giustificazione scientifica la politica razziale coloniale.
Per comprendere gli obiettivi e la portata di questo “studio dei meticci” occorre ripercorrere il dibattito sul meticciato a partire dal colonialismo prefascista, quando la ‘questione’ dei meticci si imperniava fondamentalmente sui criteri per l’attribuzione della cittadinanza.

Un meticcio può essere considerato italiano? Intorno a questa domanda si sviluppò un lungo dibattito giuridicorazziale al cui centro venne emergendo con sempre maggiore chiarezza la categoria di ‘razza italiana’. La prima vera e propria legge che si occupa dei meticci risale al 1914. Si tratta di un decreto sulle Modificazioni all’ordinamento del personale civile che negava ai figli di unioni miste la possibilità di divenire ufficiali coloniali.
Per quanto riguarda le politiche razziali e sessuali con cui il regime sostenne la ‘lotta al meticciato’, la data chiave è il 9 maggio 1936, quando Mussolini proclamò la fondazione dell’impero dell’Africa Orientale Italiana. Il 21 maggio seguente la Gazzetta del Popolo pubblicava l’articolo “L’impero italiano non può essere un impero di mulatti”. Il 23 maggio la volontà del regime di separare i “coloni italiani” dai “nativi abissini” divenne nota a livello internazionale; il giorno stesso il corrispondente a Roma del giornale News Chronicle in un articolo annotò la concomitanza tra la messa al bando di “Faccetta nera” e l’improvvisa scomparsa, dalle vetrine dei negozi, delle cartoline erotiche che rappresentavano giovanissime donne africane. Il 13 giugno 1936 la Gazzetta del Popolo pubblicò in prima pagina un articolo di Paolo Monelli contro “Faccetta nera”, intitolato “Moglie e buoi dei paesi tuoi” – segnale inequivocabile di una svolta nella politica di razza.
Il nuovo Ordinamento e amministrazione dell’Africa Orientale Italiana, approvato il 1 giugno 1936, cancellò – e dunque abolì di fatto – gli articoli sull’acquisizione della cittadinanza per i meticci. Nell’agosto dello stesso anno un documento riservato del nuovo ministro delle colonie Lessona, indirizzato al viceré Graziani e quindi a tutti i governatori coloniali, definiva le Direttive di azione per l’organizzazione e l’avvaloramento dell’A.O.I. Attraverso queste direttive si separava la politica indigena da quella dei cittadini italiani nelle colonie, in nome della necessità di una “netta separazione tra le due razze, bianca e nera” – primo sentore di quelle che sarebbero state le vere e proprie leggi di apartheid promulgate nel 1939, nelle quali, tra l’altro, si disponeva per indagini sulla paternità dei meticci e punizione dei colpevoli. Cancellata, dunque, la possibilità di venire riconosciuti come cittadini italiani, i meticci sarebbero stati considerati appartenenti alla ‘razza nera’, come venne definitivamente sancito dalla legge del 13 maggio 1940 – in base a cui il meticcio veniva assorbito nella categoria di “nativo”, e tale sarebbe rimasto per la legge italiana fino al 1947. Sul meticciato Landra non risparmia neppure gli “zingari”, cui viene attribuita la tendenza al delitto come fattore legato al sangue, dunque ereditario:
[…] il pericolo dell’incrocio con gli zingari, dei quali sono note le tendenze al vagabondaggio e al ladroneccio. […] è difatti verosimile che il sangue zingaro sia presente in quasi tutti gli individui che vanno vagando a guisa degli zingari e che ne esercitano le stesse attività antisociali. [Landra Guido, “Il problema dei meticci in Europa”, in: La Difesa della Razza, IV, 1 (5 novembre 1941)]

“Separazione assoluta e netta tra le due razze” e “Collaborazione senza promiscuità” erano fra le parole d’ordine con cui il ministro delle colonie Lessona intendeva prevenire “romanamente” ogni forma di “scivolamento verso la promiscuità sociale” ed impostare il principio della “collaborazione fascista” tra italiani e colonizzati dell’A.O.I.
La formazione della “coscienza di razza” veniva a definirsi come “seconda natura che impronterà di sé tutta la vita e le azioni degli italiani dell’Impero”. Poiché “per dominare gli altri occorre dominare se stessi”, agli italiani in colonia si richiedeva un “continuo controllo di se stessi” che modificasse completamente “la intima essenza del proprio io”. Che gli italiani in colonia facessero della “coscienza di razza” una seconda natura, ne garantiva ciò che Foucault definisce governamentalità, cioè l’interdipendenza tra le tecnologie del dominio sugli altri e le tecnologie del sé. Gli imperativi che dovevano regolare la vita del funzionario coloniale – “Mantenere il prestigio”, “Sindacarsi, vigilarsi, sorvegliarsi” e “Non insabbiarsi” – diventavano validi per ogni italiano che si trovasse nei territori colonizzati.
E se queste tecnologie del sé toccavano ogni aspetto della quotidianità in colonia, soprattutto in campo sessuale bisognava autocontrollarsi.
La nuova mentalità imperiale doveva fondarsi sul prestigio di razza. E questo significava separare la ‘razza’ colonizzatrice dalla ‘razza’ colonizzata. Sforzi molteplici vennero convogliati su questo obiettivo principale. Per divulgare il nuovo discorso razzista era funzionale attingere da rappresentazioni che, un tempo minoritarie, alimentate dal nuovo corso razzista potevano diventare egemoniche. A questo mirava il tentativo di generare un senso di disgusto basato sull’uso del burro rancido o sulla presunta caducità della bellezza delle donne africane. Il discorso medico, dal canto suo, insisteva sulle patologie di cui donne e uomini africani sarebbero stati portatori, con un particolare accento sulle malattie a trasmissione sessuale.
Ma proprio la crescente preoccupazione per il diffondersi di malattie veneree all’interno delle truppe italiane, aveva dato luogo già col colonialismo liberale non solo a precise politiche igienico-sanitarie, ma anche a politiche sessuali: si riteneva molto più sano ed igienico che un uomo italiano in colonia vivesse per un certo periodo con una donna africana che gli facesse da serva nella casa e nel letto, piuttosto che rivolgersi alla prostituzione locale. L’esito
fu la sempre più ampia diffusione di una forma di convivenza temporanea tra italiani e donne colonizzate – il cosiddetto “madamato” (o “madamismo”) – contro cui il regime imperiale si sarebbe, poi, ferocemente scagliato in quanto generatrice di ‘meticci’.
Se consideriamo i dati sulle nascite, per quanto approssimativi, vediamo che a fronte dei 1.300 nati prima del 1935, nella decade successiva ci fu un notevole incremento delle nascite, per cui ne abbiamo 2.750 “riconosciuti” e 12.200 “non riconosciuti”. Nella sola Asmara, fra il 1937 e il 1940 nel registro comunale delle nascite risulterebbero 2.594 meticci; d’altra parte è impossibile stabilire il numero di meticci non registrati. Tali dati dimostrano inconfutabilmente il fallimento delle politiche sessuali del regime nelle colonie, ancora più evidente se consideriamo la crescita esponenziale delle convivenze tra donne eritree e uomini italiani, dovuto al maggiore afflusso nelle colonie d’oltremare dopo la dichiarazione dell’impero: 1.150 nel 1935, 10.000 nel 1937, 15.000 nel 1940. Né la costituzione, nel 1938, di un’apposita polizia sessuale – la “squadra del madamismo” – nelle colonie, né le condanne nei processi contro italiani che convivessero con “suddite” arginarono in alcun modo il fenomeno del meticciato.

La separazione tra ‘razze’ risale, in realtà, già al primo periodo coloniale. Secondo l’excursus di Francesca Locatelli (“Ordine coloniale e disordine sociale. Asmara durante il colonialismo italiano (1890-1941)”, in: Zapruder, settembre-dicembre 2005), che analizza le politiche segregazioniste e in particolare il caso esemplare di Asmara, essa seguì la repressione italiana contro le popolazioni locali: “la segregazione razziale divenne evidente nei primissimi anni di occupazione, intorno al 1889-1892, e si sviluppò in maniera più organica per l’intero periodo coloniale”.
Attraverso i discorsi sull’ igiene e sulla pubblica sicurezza, nonché sulla moralità e rispettabilità, l’amministrazione coloniale giustificò dall’inizio la segregazione urbana– dunque anche mediante la gestione e il controllo della prostituzione.
I pretesti di tipo igienico-sanitario furono, infatti, funzionali all’imposizione dell’ordine coloniale in quanto svolsero un ruolo fondamentale nel processo di ‘italianizzazione’ del territorio urbano e nella conseguente marginalizzazione delle popolazioni locali mediante l’affermazione dei principi segregazionisti e la diffusione di una mentalità fortemente razzista. Già nel 1902 era stata approvata la prima parte della pianificazione urbana realizzata, in particolare per la “zona italiana”, dal Genio Civile. Nel 1908, sotto l’amministrazione di Salvago Raggi, venne elaborato per la città di Asmara un piano regolatore complessivo che sarebbe poi servito da modello anche per altri centri urbani eritrei. In esso troviamo la prima pianificazione della segregazione, dove ad aree separate della città corrispondeva una sorta di divisione razziale: una zona “europea”, una zona “mista” (detta “promiscua”) “abitata da europei, mercanti arabi, indiani, greci, ebrei e africani”, una zona esclusivamente “indigena” e un’ultima zona ad uso industriale.
Nel 1914, una serie di decreti avrebbe cominciato a sancire il restringimento della mobilità nel territorio urbano per la popolazione “nativa”, e i principi segregazionisti alla base di questa divisione si sarebbero rafforzati con l’aumento della popolazione, fino ad arrivare alla fase imperiale in cui alla separazione degli spazi urbani sarebbe corrisposta la “istituzionalizzazione di due sfere di vita diverse per italiani e ‘nativi’” – cioè un vero e proprio regime di apartheid.Nel dicembre del 1936 venne creato un Comitato di colonizzazione il cui scopo era quello di pianificare l’insediamento dei nuovi coloni provenienti dall’Italia. Il primo Congresso nazionale di Urbanistica che si tenne nel 1937 affrontò in termini inequivocabili la questione della zonizzazione delle città coloniali. In quell’occasione l’ingegnere Luigi Dodi, libero docente al Politecnico di Milano, sostenne che la separazione fra quartieri rispondeva a diverse esigenze:
Evitare i conflitti che potrebbero sorgere della promiscuità e tacitamente evitare d’altra parte che la promiscuità stessa abbia eventualmente a convertirsi in solidarietà, non del tutto desiderabile dal punto di vista politico.
Nel 1938, l’architetto Cafiero progettò per Asmara un modello di città – poi realizzato solo in parte – basato sulle leggi razziali appena approvate dal regime e sul principio enunciato dal Gran Consiglio del Fascismo secondo cui “Il problema ebraico non è che l’aspetto metropolitano di un problema di carattere generale”. Fra il 1937 e il 1940 i piani regolatori per le città colonizzate dell’Africa Orientale Italiana fornivano minuziose descrizioni ai fini della separazione razziale, arrivando perfino a prefigurare, per una “Città coloniale perfetta”, un’apposita “stazione di bonifica umana”, una sorta di check point igienico-sanitario per gli “indigeni” che intendessero accedere – per ragioni lavorative, ovviamente! – alla zona “nazionale”. Ma il concetto di bonifica umana comprendeva anche gli sgomberi coatti in cui si distruggevano col fuoco le capanne degli “indigeni”, che venivano poi deportati nei quartieri a loro destinati o “l’espropriazione delle varie soprastrutture abitate da indigeni site nelle vicinanze degli alloggi nazionali”.
È interessante notare come i privilegi di razza si rispecchiassero negli spazi a disposizione pro capite: se ad Asmara erano previsti 140 abitanti per ettaro nella zona “europea” e 380 per ettaro nella zona “indigena”, per Gimma, meno densamente abitata, le proporzioni previste non cambiano: 133 unità abitative per ettaro nella zona “indigena” a fronte dei 37 abitanti “nazionali” per ettaro.
Già all’indomani della conquista dell’Etiopia, il 5 agosto 1936, il ministro Lessona aveva impartito delle precise disposizioni al viceré Graziani: separazione tra le abitazioni “nazionali” e quelle “indigene”, evitare “ogni famigliarità [ sic] fra le due razze”, divieto per gli “indigeni” di frequentare i luoghi pubblici per “bianchi” e, ovviamente, affrontare “con estremo rigore – secondo gli ordini del Duce – la questione del ‘madamismo’ e dello ‘sciarmuttismo’ [cioè la prostituzione]”. Corollari di quest’ultimo punto erano provvedimenti quali l’obbligo per i coniugati di portare la moglie in colonia, limitare quanto più possibile i contatti fra italiani e colonizzate e organizzare case di tolleranza, anche ambulanti, con prostitute bianche.
Nel 1937 i governatori coloniali vararono una sequela di provvedimenti specifici per separare gli europei dalla popolazione locale dal punto di vista abitativo e lavorativo, nella frequentazione degli esercizi pubblici, dei luoghi di svago e dei trasporti.
Un decreto legge del 19 aprile 1937 proibiva il matrimonio tra “nazionali” e “sudditi”, punendolo con pene detentive fino a 5 anni. L’istruzione e il lavoro, ambiti in cui già pre-vigeva un regime di differenziazione razziale – compresi gli istituti missionari – vennero ulteriormente disciplinati in senso segregativo e finalizzato allo sfruttamento della forza-lavoro locale, contemplando anche la possibilità di lavori forzati.
Si trattava di rendere l’“indigeno” “obbediente, rispettoso e disciplinato” e sfruttare il lavoro “indigeno” col pretesto della tutela razziale del lavoro. Non sorprende che in Etiopia nel 1936 la paga giornaliera di un operaio italiano corrispondesse alla paga di un “indigeno” per cinque mesi di lavoro, come testimonia il giornalista Ciro Poggiali nel suo Diario AOI.

Oltre a perseguire i “sudditi” che oltrepassavano la linea di demarcazione dell’inferiorità razziale imposta loro dal governo coloniale, il regime mise in atto politiche in difesa del prestigio di razza che, come nel caso delle unioni miste, miravano a perseguire con forza e determinazione gli italiani che si riteneva avessero in qualche modo leso tale “prestigio”. Questa fu la funzione attribuita alle Sanzioni penali per la difesa del prestigio di razza nei confronti dei nativi dell’Africa Italiana (legge 1004 del 29.6.1939), che riconoscevano una sorta di aggravante se i reati erano commessi “in circostanze lesive del prestigio di razza” come, ad esempio, in presenza di “nativi” o con il loro concorso.
Tali sanzioni erano state in certo modo preannunciate da Mussolini nel famoso discorso di Trieste del settembre 1938 quando, davanti a 200mila persone, dichiarò:
Il problema razziale non è scoppiato all’improvviso, come pensano coloro i quali sono abituati ai bruschi risvegli, perché sono abituati ai lunghi sonni poltroni. È in relazione con la conquista dell’Impero; poiché la storia ci insegna che gli imperi si conquistano con le armi, ma si tengono con il prestigio. E per il prestigio occorre una chiara, severa coscienza razziale che stabilisca non soltanto delle differenze, ma delle superiorità nettissime.
Alla fine del 1938 un anticipo delle discriminazioni e della segregazione veicolate da tali sanzioni venne pubblicato sulla rivista Etiopia, quindi ad uso degli italiani in colonia:
Per il prestigio della razza nell’Impero
Non vogliamo vedere l’indigeno testimoniare contro il bianco.
Non vogliamo vedere un bianco ammanettato per le vie dei centri coloniali.
Non vogliamo leggere cronache giudiziarie in giornali coloniali che parlino di condanne di bianchi[cosa che, invece, all’epoca era frequente, nota mia].
Non vogliamo leggere cronache di arresti, furti e reati infamanti che si riferiscono a bianchi nella stampa dell’Impero [altra cosa frequente all’epoca , nota mia].
Non vogliamo vedere agenti della forza pubblica intervenire in favore di un nero quando sorge una contesa fra questo e un bianco.
Non vogliamo vedere neri e bianchi confusi nella stessa anticamera.
Non vogliamo vedere concessionari neri di spacci, distributori di benzina, etc. associati con bianchi.
Ricordare sempre che il più umile dei bianchi è centomila volte superiore a tutti i cosiddetti notabili indigeni messi insieme.

Non è possibile comprendere a fondo le implicazioni delle politiche razziali e sessuali del regime nelle colonie senza considerare al contempo le politiche indirizzate alle donne ‘di razza italiana’ – che chiamerò, con una sineddoche, uteri littori. Significative sono, al proposito, le parole di Carlo Rossetti, segretario generale dell’Istituto Fascista dell’Africa Italiana:
Senza la donna non si propaga la razza; senza la fecondità, o meglio, la volontà di fecondità della donna non si assurge a potenza demografica; vano, infine, sarebbe parlare di popolare l’Impero di metropolitani se non si sottintendesse e delle loro donne. E che questa, di popolare le terre italiane d’Oltremare non di soli uomini sia la precisa volontà del Duce e però comandamento e direttiva per tutta la nostra opera di colonizzazione imperiale, lo vediamo da tante provvidenze di governo che vanno dalle leggi per la prevenzione del meticciato alla trasmigrazione per successive ondate di molte famiglie in Libia; dai Corsi per la preparazione della donna alla vita coloniale, affidati dal Partito alle cure del nostro Istituto di concerto con le Federazioni di Fasci Femminili e con i Comandi Federali della G.I.L., alla fondazione delle aziende agricole, tutte popolate di nostre famiglie di rurali, di Romagna d’Etiopia, Veneto d’Etiopia, cui da ultimo si è aggiunta Aosta d’Etiopia. […] Così, da qualunque parte si guardi, sia dal lato della politica demografica, sia da quello della purezza della razza, o dell’avvaloramento dell’Impero o, ancora dei rapporti con gli indigeni, tutto ci porta a prevedere un forte e ordinato esodo di donne verso quelle terre. [Istituto Fascista dell’Africa Italiana, Elementi pratici di vita coloniale per le Organizzazioni Femminili del P.N.F. e della G.I.L.. L’edizione cui faccio riferimentoqui è la ristampa del 1941-XIX]
La citazione è tratta dal testo utilizzato nei “Corsi di preparazione per donne alla vita coloniale”, avviati in occasione dell’anniversario della presa di Macallè, l’8 novembre del 1937. Questi corsi, della durata di tre mesi e suddivisi tra un parte teorica e una pratica, prevedevano un minimo di tre lezioni settimanali e degli esami finali in base a cui veniva rilasciato un certificato d’idoneità, titolo necessario per avanzare domanda d’invio nelle colonie. Ai corsi facevano, poi, seguito dei campi pre-coloniali in località italiane, a cura dei Fasci Femminili, e un campo nazionale coloniale femminile in Libia, che l’Istituto Fascista dell’Africa Italiana organizzava in quattro turni annuali (9 e 24 giugno, 15 e 29 settembre). Modelli esemplari di retto comportamento femminile nelle colonie e indicazioni di igiene coloniale venivano forniti a piene mani alle donne che si apprestavano a recarvicisi.
L’accresciuta presenza di donne italiane in colonia implicò la costruzione di un cordone sanitario che, oltre a garantirle dal contagio di malattie sessuali contratte dai mariti – spesso sposati per procura – cui si ricongiungevano, assicurasse l’assoluta mancanza di contatti fra queste e gli uomini africani. La possibilità di relazioni sessuali delle italiane con i “sudditi”, vera e propria sfida alle gerarchie di razza e genere, era temuta ancor di più in funzione della
divisione sessuale del lavoro riproduttivo secondo la quale la donna, in quanto portatrice del patrimonio biologico, avrebbe avuto maggiore responsabilità nella difesa della razza rispetto all’uomo, considerato portatore del carattere morale.
Dal punto di vista giuridico, per un’italiana generare un figlio con un “suddito” avrebbe significato generare un figlio anch’esso “suddito” – oltre che rischiare di diventare a sua volta “suddita” per legge. Già il Codice Rocco aveva sancito questa asimmetria, punendo in maniera diversa quando si trattava di un matrimonio tra una donna bianca e un uomo nero.

Per Mussolini, ogni residuo di autonomia femminile doveva venire definitivamente debellato: a partire dal 1933, con l’istituzione della “Giornata della madre e del fanciullo”, aveva cercato di convincere le donne dell’importanza di questo compito e delle gratificazioni che ne derivavano; con l’impero tale processo raggiunse il suo apice e da una strategia premiale si passò alla feroce colpevolizzazione delle donne che disertavano il loro compito essenziale.
Nicola Pende – il quale, oltre che sottoscrittore del Manifesto del Razzismo Italiano, era anche il medico endocrinologo creatore dell’Istituto Biotipologico Ortogenetico nonché l’ideatore del “libretto individuale biotipologico sanitario” finalizzato all’ ortogenesi della stirpe– attaccò frontalmente la “disposizione anticoncezionale nella donna adulta, moderna”. Della “donna moderna”, soprattutto se urbanizzata, Pende enumerava i due “tipi anormali”: “La donna agiata ad abitudini edonistiche anticasalinghe e la donna povera lavoratrice delle officine, dei negozi e degli uffici, che limitano volontariamente le proprie abitudini materne”. E richiamava le politiche di ‘mescolanza’ tra donne e uomini italiani miranti a rafforzare la ‘razza’:
La eugenetica matrimoniale della razza deve anche contemplare la grande utilità, stabilità, della genetica umana, di favorire i matrimoni fra soggetti di stirpi etniche diverse, ma entro i confini d’Italia e non fuori d’Italia. L’incrocio fra stirpi italiche diverse, ma tutte egualmente ricche di valori somatici e spirituali e d’antichissima nobiltà di sangue, può favorire l’emergenza di figli di qualità superiore, ed anche geniali. E occorre in questo continuare l’opera di Roma ed amalgamare, anche col metodo delle migrazioni interne, le varie stirpi italiche. […] Italici con italici, deve essere il motto eugenico nostro dal lato della politica matrimoniale […]. [Nicola Pende, “La terra, la donna e la razza”, in: Gerarchia, ottobre 1938]
Alla donna venne attribuito il ruolo eugenetico di migliorare – quindi non solo di conservare – il patrimonio biologico della ‘razza’:
È la donna geneticamente sana che spesso compensa con la sua forza vitale e la sua normale eredità i difetti ereditari od acquisiti del marito, che sarà per l’Italia uno dei pilastri più fondamentali alla bonifica della razza.
Per quanto gli effetti reali delle politiche nataliste del regime siano stati assai discutibili, di fronte a queste nuove responsabilità per la difesa della ‘razza’, la sessualità femminile divenne sempre più l’assillo del controllo totalitario.
Dal 1930-31 il Codice Rocco aveva sancito per legge il controllo della sessualità femminile, definendo l’uso di anticoncezionali e l’interruzione di gravidanza come “reati contro l’integrità e la sanità della stirpe” (artt. 545-553).
Intanto il Vaticano, con l’enciclica Casti connubi (1930), si era scagliato contro le pratiche di controllo delle nascite.
Nonostante nella realtà gli effetti degli aborti clandestini fossero spesso invalidanti, quando non mortali, poco importava della salute della donna quanto, invece, dei suoi effetti sulla società e sulla ‘razza’.
Addirittura si arrivava al paradosso per cui la donna che, in conseguenza della pratica abortiva, era diventata “impotente a procreare”, rischiava di essere considerata doppiamente colpevole di “reati contro l’integrità della stirpe”!

Perduto il dominio sull’impero e su gran parte del territorio nazionale, e ormai ridotto a governare uno stato fantoccio – la Repubblica Sociale Italiana – nel novembre del 1944 il fascismo ebbe un ultimo, paradossale, conato razzista.
Una circolare riservata e diretta a questori, podestà e commissari prefettizi dichiarava che “in forza di una legge suprema di difesa dell’onore e della razza” l’aborto era possibile nei casi in cui una donna fosse stata violentata “da parte di fuori legge o di stranieri nemici, spesso appartenenti a razze non ariane, che non soltanto disonorano le nostre donne, ma compromettono la sanità della razza”. Ancora una volta il corpo e la dignità della donna non avevano alcun valore rispetto alle priorità razziali: il problema non era la violenza sessuale, ma la non arianità o la non ‘fascistità’ dello stupratore.
D’altronde lo stupro nel codice penale fascista era annoverato fra i “delitti contro la moralità pubblica e il buon costume”, ed era considerato un reato estinguibile mediante ‘matrimonio riparatore’ anche nel caso in cui la donna violentata fosse minorenne. Tale sarebbe rimasto fino alle nuove Norme contro la violenza sessuale del 1996, che lo riconobbero finalmente come crimine contro la persona.
Di recente il Parlamento italiano mediante le Misure urgenti in materia di sicurezza pubblica e di contrasto alla violenza sessuale, nonchè in tema di atti persecutori (D. L. 23.2.2009, n. 11) – presentate come “un sistema di norme finalizzate [...] ad una più efficace disciplina dell’espulsione e del respingimento degli immigrati irregolari, nonché ad un più articolato controllo del territorio” e mediaticamente definite “decreto antistupri” – ha riproposto lo stigma straniero=stupratore come ulteriore pretesto per riattivare i dispositivi discriminatori in nome della ‘razza’ e dissimulare ciò che le donne ben sanno e le statistiche confermano – cioè che le violenze sessuali trovano nella famiglia il luogo privilegiato.

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